UNA DISCARICA GALLEGGIANTE…
Oggi circa 8 mila tonnellate di rifiuti circondano il globo, in parte satelliti completi e in parte frammenti derivanti da esplosioni e collisioni, nonché parti dei razzi con cui vengono proiettati. Regno Unito e Giappone stanno testando tecnologie per ripulire lo spazio
Sessanta anni fa (12 aprile 1961) un giovane russo, Jurij Alekseevič Gagarin, volò nello spazio scorrazzandovi per un’ora e 48 minuti a bordo della sua Vostok 1. Fu il primo uomo nel cosmo. Già da quattro anni, però, lo spazio era stato “profanato” con l’invio di una sonda che lasciò le prime scorie. Quando nel 1957 la Russia lanciò Sputnik1, a nessuno interessava cosa sarebbe successo ai satelliti una volta che avessero terminato il carburante, subìto un incidente o terminato la loro missione. Dopo sei decenni di corsa allo spazio e migliaia di dispositivi inviati nell’universo, questo abbandono ha un’ovvia conseguenza: molti rimangono lì, accumulandosi in una discarica galleggiante. È difficile dire esattamente quanti siano, perché non è possibile “vederli” e censirli tutti. Quelli che sono ancora in orbita e che sono stati catalogati, tipicamente più grandi di 20 centimetri, sono circa 9.000. Secondo stime teoriche, però, esistono decine di migliaia di oggetti di dimensioni inferiori, da uno a 10 centimetri. Anche se questi oggetti sono di dimensioni ridotte, bisogna tenere presente che l’eventuale collisione genererebbe danni ingenti perché avrebbe luogo a una velocità relativa elevatissima: circa 10 chilometri al secondo, nel caso di una collisione in orbita bassa
Come un enorme sciame, oggi circa 8 mila tonnellate di rifiuti circondano il globo, in parte satelliti completi e in parte frammenti derivanti da esplosioni e collisioni, nonché parti dei razzi con cui vengono proiettati. A loro si aggiungono, nella grande discarica che ci circonda, le micrometeoriti di origine naturale. Un problema che ci riguarda molto da vicino. Un esempio è quanto accaduto nel novembre 2015 in alcune zone del sud-est della Spagna, dove caddero dal cielo dei pezzi di metallo, frammenti grandi tra poche decine di centimetri e quattro metri di diametro: si trattava di detriti spaziali che erano rientrati nel nostro pianeta. Dei quasi 9.000 oggetti catalogati, circa il 22 per cento è rappresentato da satelliti non più funzionanti (la maggior parte dei quali è di uso militare); un ulteriore 17 per cento è costituito da stadi propulsivi di razzi, che vengono rilasciati nella fase finale di un lancio. Circa il 13 per cento è rappresentato da elementi che si usano normalmente sui satelliti artificiali: bulloni, coperture termiche, ma anche semplicemente scaglie di vernice che si sono staccati dalla superficie esterna del satellite. Infine, il 43 per cento è costituito da frammenti dovuti a circa 150 esplosioni e a pochissime collisioni che a questo livello sono un evento molto raro.
All’inizio, le nazioni non erano consapevoli del problema, ma ora sono coscienti che occorre controllare e ridurre i detriti spaziali. Negli ultimi 50 anni, l’acquazzone è stato costante. La Nasa ha registrato una media di un pezzo che cade ogni giorno, tra le 50 e le 100 tonnellate all’anno. Quasi sempre in mare – che occupa il 71% della superficie terrestre – o in aree scarsamente popolate, come la tundra canadese, il deserto australiano o la Siberia. Senza lesioni personali gravi documentate, il rischio rappresentato da questi rifiuti ha molto più a che fare con ciò che accade nello spazio, considerato che prima di toccare terra, di solito si disintegrano, ma a volte sopravvivono per lo spavento e l’incolumità di chi li vede cadere.
Più satelliti vengono inviati nello spazio, più spazzatura viene generata. Andando alla deriva a velocità vertiginose, questi residui mettono in pericolo sia la sicurezza delle apparecchiature in servizio che la fattibilità delle missioni future. Per mitigare il problema, paesi come il Regno Unito e il Giappone stanno testando tecnologie per ripulire lo spazio. Inoltre, si stanno sviluppando programmi per monitorare gli oggetti vaganti e allertare i satelliti operativi di un pericolo di collisione. Una specie di mappatura, un progetto per la sorveglianza e il controllo dei resti di rifiuti denominato Sst gestito da cinque paesi: Italia, Regno Unito, Francia, Germania e Spagna. I detriti si accumulano soprattutto in due regioni del cielo, quelle che offrono i maggiori vantaggi per il funzionamento dei satelliti. Il 70% dei rifiuti è ospitato in una fascia di spazio che si estende tra i 200 e i 2.000 chilometri di altezza. È il cosiddetto LEO, orbita bassa che circonda la Terra. È un’area dove volano i satelliti che mappano il pianeta per l’agricoltura o per l’osservazione dei cambiamenti climatici. Non solo: Dai cellulari o dalla televisione satellitare al Gps, passando per innumerevoli missioni scientifiche e militari, l’attrezzatura del mondo contemporaneo dipende inevitabilmente da come viene gestito ciò che accade oltre le nuvole. I satelliti vengono collocati in orbita Leo perché il segnale impiega meno tempo per andare e tornare. A circa 400 chilometri di altezza naviga la Stazione spaziale internazionale (Iss), un centro di ricerca permanentemente presidiato. Qui, la spazzatura non mette in pericolo solo le attrezzature, ma anche le persone. Inoltre, va tenuto conto che questi rifiuti si muovono a una velocità compresa fra i tre e gli otto chilometri al secondo (quest’ultima era la velocità dello Sputnik in orbita), cioè sette volte più velocemente di un proiettile. Se uno di quei pezzi entra in collisione con un satellite operativo, può distruggerlo: un pezzo grande quanto una moneta da un euro può far esplodere un’opera di ingegneria milionaria.
Fino al 2009 non si erano verificate collisioni su larga scala di due satelliti artificiali. Il 10 febbraio di quell’anno, però, mentre sorvolavano la Siberia, l’American Iridium 33 e il Russian Cosmos 2251 si scontrarono a una velocità di 42.120 chilometri all’ora. Le conseguenze, secondo una ricerca dell’Esa, hanno portato a circa 3.400 pezzi di rottami metallici tracciabili (a partire da circa due pollici) e un numero imprecisato di frammenti più piccoli. Quali soluzioni esistono e quali potrebbero essere testate? Gli Stati Uniti hanno impiegato decenni a raccogliere dati e a realizzare un catalogo in cui sono documentati oltre 22.000 oggetti più grandi di 5-10 centimetri, 3.600 dei quali sono interi satelliti e 1.000 sono in funzione. Al di sotto di quella dimensione è molto difficile rilevarli, ma si stima che circa 500.000 pezzi tra 1 e 10 centimetri volino sopra le nostre teste, il più piccolo è come un chicco di riso.
Mentre alcuni si dedicano a rilevare e catalogare l’enorme quantità di detriti spaziali per cercare di tenerli sotto controllo al fine di evitare mali maggiori, altri sono alla disperata ricerca di un modo per sbarazzarsene. In questo campo ci sono idee per tutti i gusti: si sta valutando l’utilizzo di bracci robotici, laser o spugne ultrasottili in grado di assorbire i residui. All’inizio dello scorso anno l’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa) ha testato un sistema cablato per la cattura di detriti, un’iniziativa che tecnicamente non ha avuto successo. Nel 1978, quando i detriti spaziali non erano ancora oggetto di studio, l’astrofisico della Nasa Donald J. Kessler segnalò la possibilità di una reazione a catena, definita “sindrome di Kessler”. La sua ipotesi prevede un effetto domino nei Leo: dato il volume di spazzatura che esiste, le possibilità di uno schianto cresceranno e diventeranno realtà, al punto che il livello di spazzatura generato renderà inutilizzabili le orbite. In questo caso, addio a Internet globale, Gps, osservazioni ed esperimenti. E qui torniamo a Yurij: è ipotizzabile che arriverà il giorno in cui i pro-pro-pronipotini di Gagarin dovranno fare la raccolta differenziata anche per i rifiuti spaziali.