Il risultato permette al potentissimo Erdogan di interpretare a suo comodo la Costituzione sottolineando la componente islamica, e di soprassedere al rispetto di molte libertà previste nella Carta fondamentale e dalla Convenzione universale dei diritti dell’uomo
Per essere una vittoria, è una vittoria, ma non il trionfo sperato dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan a seguito delle elezioni anticipate svoltesi il 24 giugno scorso in Turchia. Tant’è vero che per ottenere la maggioranza in Parlamento, il 52,9, il suo partito, Diritto e Giustizia, ha dovuto allearsi con la formazione ultranazionalista MHP; con una perdita quindi del 7,8 per cento rispetto al risultato colto da solo due anni fa (fu allora del 59,7). L’esito delle urne, ottenuto su una partecipazione elettorale – 88 per cento su circa 60 milioni di aventi diritto al voto – abbastanza inconsueta per i nostri tempi, rispecchia un paese spaccato in due, con quasi la metà che ha scelto l’opposizione, nonostante le difficoltà incontrate da quest’ultima nella campagna elettorale; e, cosa che meno garba a Erdogan, è entrato in Parlamento un manipolo di 67 deputati curdi su 600 (compresi quelli che, contro ogni regola di convivenza civile, stanno in galera), non disposti a rendere vita facile al governo, e che si sperava di eliminare alzando lo sbarramento al 10 per cento.
Il “sultano” potrà comunque continuare a forgiare a propria immagine il futuro volto del paese. Quasi come rivalsa a cento anni esatti dalla disfatta della prima guerra mondiale, nel 1918, alla fine della quale si sfaldò l’impero ottomano sino ad allora esteso in Asia minore, Africa del nord e Balcani. Perché il sogno di Erdogan è di fare, come ha dichiarato, della Turchia una delle dieci nazioni più potenti del mondo, e con qualche tentazione di egemonia nel Medio Oriente. Una prospettiva che solletica il nazionalismo anatolico e sta spingendo Ankara su una china pericolosa. Come appunto sta accadendo, attraverso le invasioni militari in Siria e Irak, con il pretesto di controllare l’indipendentismo curdo, ovvero – come dice il governo turco – il suo “terrorismo”. E qui si comprende perché Erdogan abbia avuto il sostegno dell’ultranazionalista MHP, che tollera “l’identità curda soltanto nella sua sottomissione”.
Il presidente dirige il paese con un pugno di ferro. Insegnanti, giornalisti, intellettuali, giudici (quattromila i magistrati epurati), difensori dei diritti civili, 160mila funzionari pubblici, fra i quali quasi seimila docenti universitari, militari, sindacalisti sono stati spazzati via: molti arrestati e processati, la maggior parte licenziati, privati dello stipendio, dei passaporti e persino delle pensioni. Il mancato colpo di stato del 2016 (un “dono di Dio” lo ha definito Erdogan) ha permesso di regolare i conti e decapitare le dirigenze di tutte le strutture di opposizione, compresi centinaia di alti e medi ufficiali, molti dei quali in servizio nella Nato, non in sintonia con la politica del capo. Il risultato delle attuali elezioni permette al potentissimo leader di interpretare a suo comodo la Costituzione, approvata per referendum nel 2017, sottolineando la componente islamica, e di soprassedere al rispetto di molte libertà previste nella Carta fondamentale e dalla Convenzione universale dei diritti dell’uomo. Il principale esponente dell’opposizione, Muharren Ince (30,7 per cento, quindici milioni di voti), ha denunciato il carattere di “regime autoritario”. Sa che avrà una vita difficile, con qualche rischio di arresto e poco spazio sul media, quasi totalmente asserviti al governo , anche a causa di minacce e chiusure. Una caratteristica di queste elezioni sta nel fatto che Erdogan le ha vinte grazie al forte contributo di voti delle diaspore turche, in modo particolare di quelle in Germania (un milione e mezzo circa) e in Francia (300mila), verso le quali gli ambienti governativi hanno profuso ingenti mezzi di propaganda. La pressione si è tradotta in alcuni casi in forme di violenza, per esempio in Francia, dove attivisti turchi hanno assalito edicole di giornali che esponevano un settimanale con una copertina molto critica verso Erdogan. In Germania si è levato il grido di dolore del deputato verde turco-tedesco Cem Oezdemir, il quale ha ammonito che i suoi concittadini non hanno festeggiato soltanto la loro autocrazia ma anche “l’abbandono della nostra democrazia liberale”.
Il giro di vite nei confronti degli avversari non si arresterà, ma anche l’opposizione resta forte, specialmente negli ambienti culturali e giornalistici. Non è un caso, del resto, che proprio le città più evolute dal punto di vista intellettuale e centri di vita economica (Smirne e Istanbul) siano quelle che hanno dato un maggior numero di voti alle minoranze, addirittura oltre il 50 per cento a Ince. E poi bisognerà anche vedere quale indirizzo prenderà l’economia, con la lira turca che negli ultimi giorni si è deprezzata della metà, disoccupazione e inflazione al 10 per cento, mentre si prevede un Pil al 2,5 per il 2018, rispetto al 6 per cento dell’anno scorso. Ma Erdogan ha promesso “i domani che cantano”.