UN PAESE CHE HA PERSO LA VOGLIA DI FUTURO
Questo 2013 è arrivato alla metà dell’anno: un giugno caldo e non solo per ragioni meteorologiche, ci ricorda che il nuovo governo ha appena cominciato il suo percorso, nonostante le elezioni politiche risalgano allo scorso febbraio. Gli italiani devono ancora riprendersi dalla sorpresa provocata dalla riconferma di Giorgio Napolitano a capo dello stato, conferma che è stata interpretata da molti come l’unica possibilità per porre un freno all’incredibile mancanza di responsabilità dimostrata dai partiti italiani posti di fronte alla duplicità della crisi: quella mondiale e la loro crisi di struttura.Si fronteggiano oggi tre schieramenti che contano una rappresentanza quasi uguale in termini numerici: due di questi sono stati costretti dall’autorevolezza “impositiva” del presidente della Repubblica, a collaborare insieme.Ci sarebbe piaciuto, mi sarebbe piaciuto, che questa imposizione fosse stata una libera scelta, dettata dalla responsabilità: così non è stato, purtroppo, e ciò appare davvero assai grave. Dove sono finite quelle “tracce di comunità” che avrebbero dovuto legare i diversi per compiere insieme un percorso che doveva avere come fine il bene comune? In periodi difficili e dolorosi come questi è necessario fare ricorso alla nostra dottrina cattolica per accettare di collaborare con l’avversario, senza demonizzarlo oppure disprezzarlo; si assiste invece a un grottesco “tira e molla” dove al governo si sta insieme e subito prima o subito dopo non si perde occasione per insultare l’odiato alleato. Questo comportamento schizofrenico non fa certo bene al paese: e se mettessimo in ordine tutte le cose necessarie da fare per migliorare la situazione (o almeno per tentare di uscire da questo spaventoso stallo) ci accorgeremmo che si tratta di usare il buon senso e di elencare urgenze che tutti, ma proprio tutti, condividono. Proviamo a metterle in ordine: cambiamento della legge elettorale, azzeramento degli oneri contributivi per le nuove assunzioni (almeno per un numero ragionevole di anni… tre?), applicazione del federalismo fiscale per gli enti territoriali, valorizzazione del contributo dei privati, a tutti i livelli, nella promozione e nella valorizzazione del nostro patrimonio culturale, incentivi veri ai nostri migliori “cervelli” per non farli emigrare. Sei punti essenziali e di semplice e immediata realizzazione, che potrebbero fare dell’attuale governo un esempio virtuoso di pragmatismo rispetto all’Europa e, soprattutto potrebbero instillare un poco di speranza in questo triste paese che ha perso la voglia di futuro; perché nemmeno nell’immediato dopoguerra siamo stati così sfiduciati e pessimisti. Desidero, a questo proposito, ricordare qui un uomo che non ha mai avuto paura di quella che si chiama “real politik” e che ha saputo affrontare difficoltà ancora maggiori di quelle che noi oggi viviamo. Giulio Andreotti è morto un mese fa lasciando – come è abitudine tutta italiana – guelfi e ghibellini, due scuole di pensiero: estimatori e detrattori. Io sono fra i primi e una lettera, che ricordava proprio “come eravamo” nel lontano 1945, rappresenta bene la mia posizione. Per questioni di spazio vi propongo solo un breve stralcio di ciò che mi scrisse nel 2009 in occasione della prima edizione de La Valle d’Aosta solidale, da me presieduta, dedicata al terzo settore. Ricordava la sua amicizia con don Gnocchi e soprattutto un periodo molto più doloroso di quello che stiamo vivendo. C’è solo da imparare: “Il cuore degli italiani è grande e l’insegnamento di don Gnocchi deve aiutarci ad andare avanti sulla strada del dono. Sapremo essere sempre più generosi e guardare con fiducia il futuro. Lo conobbi poco dopo la mia nomina a sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, nel giugno 1947. Mi aveva telefonato un sacerdote di Milano, che mi disse: verrà un prete tutto particolare. Un sacerdote che aveva scelto coraggiosamente un apostolato spiritualmente affascinante e nuovo: bastavano infatti pochi minuti dei suoi accorati appelli per convincere ognuno al dovere di fare qualcosa. Venne al Viminale, dove era allora la presidenza del Consiglio, e parlò delle sue esperienze di guerra e di quello che doveva essere fatto. Mi lasciò, perché non dimenticassi quel colloquio, una fotografia di quattro piccoli ospiti mulatti. Sulla fotografia aveva scritto: Tutta la guerra negli occhi di questi bambini. Il primo agosto del 1948 fu costituita l’associazione Amici della casa del piccolo mutilato di Milano con Arturo Toscanini presidente onorario. Fu la prima battaglia sociale del dopoguerra, arrivarono 17milioni di lire dell’American Relief of Italy, nacque la Catena della felicità che raccolse 50milioni di lire”.