UN NEGATIVO BILANCIO DEL 2014
DA UNA PARTE IL FALLIMENTO DELLE “PRIMAVERE ARABE” CON IL RITORNO DI UN REGIME AUTORITARIO IN EGITTO, LA GUERRA CIVILE IN LIBIA E L’IMPLOSIONE, FRA L’IRAK E LA SIRIA, DI UN ISLAMISMO AGGRESSIVO E SANGUINARIO; DALL’ALTRA LA CRISI CHE SI È SVILUPPATA AI CONFINI DELL’UNIONE EUROPEA: IL CONFLITTO CHE SI TRASCINAVA DA ALCUNI ANNI SI È TRASFORMATO IN UN RISCHIOSO CONFRONTO FRA MONDO OCCIDENTALE E MOSCA
Da segnare con una pietra nera, come dicevano i latini, il trascorso 2014, il peggiore dopo l’anno dell’attentato alle Torri Gemelle, il 2001. Con due crisi maggiori, una, palese, che coinvolge in modo diretto dieci paesi del Medioriente e indirettamente l’intera diplomazia mondiale, e l’altra, strisciante, di un ritorno alla guerra fredda sviluppatosi attorno alle vicende dell’Ukraina. Nello scenario mediorientale si è completato il fallimento delle “primavere arabe” con il ritorno di un regime autoritario in Egitto, la guerra civile in Libia (il moderatismo della Tunisia resta l’eccezione) e l’implosione, fra l’Irak e la Siria, di un islamismo aggressivo e sanguinario. Il fenomeno del “califfato islamico” si è manifestato all’improvviso diffondendosi, a partire dall’estate, nel vuoto di potere in Irak e nella situazione di guerra civile in Siria. L’Is occupa ormai una rilevante porzione di territorio dei due paesi (estendendosi sino al Sinai egiziano) e proclama l’ambizione di costituirsi in nazione, con un programma di rigida imposizione della legge coranica attraverso la violenza, come testimoniano le migliaia di vittime, le feroci esecuzioni di ostaggi occidentali e di prigionieri siriani o curdi, le persecuzioni contro le minoranze religiose, dagli sciiti ai cristiani, dagli yazidi ai curdi, nei territori occupati.
Non è un conflitto puramente locale, come provano le preoccupazioni generali e gli interventi esterni: gli Stati Uniti appoggiano con bombardamenti mirati la resistenza agli invasori del debole esercito irakeno e delle truppe del Kurdistan, la Turchia concede ai rinforzi curdi l’attraversamento del suo territorio, l’Egitto è in armi contro il califfato, la Nato è impegnata in operazioni di sostegno da parte di alcuni paesi membri (fra i quali l’Italia). E l’Iran incoraggia gli sciiti di Hamas a combattere l’Is, mentre le monarchie arabe del petrolio versano fiumi di dollari dopo aver fiutato il pericolo di un richiamo oltranzista all’islam che metterebbe a rischio la loro esistenza.
Il bubbone siro-irakeno è contiguo ad altre situazioni esplosive nell’area. In primo luogo l’eterna quaestio arabo-israeliana, entrata in una spirale di accesa conflittualità dopo la guerra estiva di Gaza dei sessanta giorni (con immense distruzioni, 1500 morti palestinesi, di cui un quarto bambini, e 65 ebrei), frutto di reciproche violenze, degli insediamenti illegali dei coloni e della diffusione di un terrorismo palestinese fai-da-te che preoccupa molto le autorità di Tel Aviv. E si sa che quello della Terrasanta è “il problema”, risolto il quale (come ha compreso papa Francesco con la sua iniziativa dell’incontro in Vaticano fra islamici ed ebrei) molte altre caselle del mosaico andrebbero a posto.
Compresa la casella iraniana con il contenzioso che oppone Teheran alla comunità internazionale nella ricerca nucleare. A scopo pacifico, afferma il regime degli ayatollah; con l’intenzione di procurarsi la bomba atomica, ribattono gli avversari, per assicurarsi una posizione egemone nell’area mediorientale. In un discorso nel quale entrano più sofisticate strategie di finanza internazionale, come per esempio quella della prezzo del petrolio, negli ultimi tempi in calo: che danneggia l’Iran a favore dell’Arabia Saudita (altra pretendente al primato regionale) e rianima indirettamente lo scontro confessionale fra gli iraniani, sciiti, e i sauditi, sunniti.
L’altra crisi si è sviluppata ai confini dell’Unione Europea: il conflitto che si trascinava in Ukraina da alcuni anni si è trasformato in un rischioso confronto fra mondo occidentale e Mosca, al punto da far temere il replicarsi di una “guerra fredda” dagli esiti imprevedibili. Per il momento si registra le secessione, attraverso un referendum popolare, della Crimea e il suo ritorno alla Russia. Una vittoria soltanto parziale perché rende improbabile il disegno di Vladimir Putin di dar vita a una sorta di Ue dell’est, di cui Kiev avrebbe dovuto far parte come pedina essenziale, mentre adesso sta recuperando la propria autonomia, minacciata peraltro dalle minoranze russofone (in una vera e propria guerra guerreggiata) apertamente sostenute dal potente vicino.
L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno quindi deciso una serie di misure punitive nei confronti di Mosca, che ha risposto con provvedimenti di ritorsione. In pratica è in atto un conflitto che altera i mercati, produce conseguenze negative in un campo e nell’altro (esportazioni che ne risentono, il rublo che crolla nelle borse), induce ad atteggiamenti rissosi (qualche diplomatico espulso, qualche dichiarazione velenosa di troppo) e alza il tono delle minacce anche sul piano militare.
Non senza altre zone calde, come in alcuni paesi dell’Africa centrale, dove stanno crescendo le contrapposizioni religiose e tribali. In Mali, in Nigeria, in Centrafrica, in Costa d’Avorio, in Burkina Faso, in So-malia, in Congo, in Kenya implode la violenza politica e confessionale, con esiti di cui fanno in maggioranza le spese i cristiani. La cifra globale delle persecuzioni che li riguarda si aggira, per il 2014, in 150mila vittime, non soltanto in Africa ma anche in Asia (India e Pakistan sono in testa all’elenco).
Il successo della sonda Rosetta che ha raggiunto una cometa a un milione di chilometri dalla terra, il grande accordo Usa-Cina sulla diminuzione, a termine, dell’inquinamento atmosferico, il Nobel della pace a Malala, che difende i diritti delle donne, e a Kailed Satyarthi che tutela i bimbi sfruttati non bastano a compensare la serie nera di notizie che nel 2014 sono giunte dal mondo. La nostra speranza sta in un 2015 migliore.