UN INQUINAMENTO FASHION

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite la moda è la sesta industria più inquinante al mondo. Il comparto utilizza 93 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, per produrre una camicia in cotone ne servono 3.000 litri e spesso imballa abiti in paesi come l’Asia dove le fabbriche funzionano a carbone e gas. E anche trasportare abiti ha un impatto ambientale notevole

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, l’industria della moda produce dall’8% al 10% di tutte le emissioni globali di CO2, ovvero tra i 4 e 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera ogni anno. La moda, insomma, è la sesta industria più inquinante al mondo.

Ma come può succedere? Succede perché l’industria della moda utilizza coloranti, per dare tinte diverse alle stoffe, consuma molta acqua (il comparto utilizza 93 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, per produrre una camicia in cotone ne servono 3.000 litri), spesso imballa abiti in Paesi come l’Asia dove le fabbriche funzionano a carbone e gas. Non da ultimo, l’utilizzo di alcune fibre sintetiche come poliestere, nylon, acrilico ed elastan: materiali estremamente economici, ottenuti dalla lavorazione di combustibili fossili e già presenti in oltre la metà dei tessuti.

Anche trasportare abiti ha un impatto ambientale notevole: gli ordini online contribuiscono notevolmente alle emissioni. Negli Stati Uniti, ogni anno, il servizio di spedizione del settore della moda produce emissioni di gas serra equivalenti a quelle di 7 milioni di automobili. Ovviamente, anche i rifiuti rappresentano un problema notevole per la tendenza della “fast fashion”.

Con l’aumento del fatturato dalla “fast fashion”, l’85% dei tessuti finisce in discarica ogni anno. Secondo le stime di Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), il 5,7% dei rifiuti indifferenziati nel nostro Paese è composto da rifiuti tessili, si tratta di circa 663mila tonnellate l’anno destinate a smaltimento in discarica o nell’inceneritore e che potrebbero essere, in grande parte, riutilizzate o riciclate.

Secondo una ricerca fatta dal WWF, testando 12 grandi marche di abbigliamento e misurando il loro impatto sull’ambiente, si è rilevato come più di metà delle aziende controllate non hanno finora adottato praticamente nessuna misura per contribuire a contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici. Molte imprese utilizzano ancora poche materie prime riciclate o prodotte in modo sostenibile. I risultati del rating WWF mostrano come solo poche aziende impieghino strumenti scientifici e applichino idonee misure per costituire una solida metodologia di gestione ambientale all’interno dell’impresa.

Una tendenza che sembra non aver fine: secondo le previsioni, il fabbisogno di abbigliamento continuerà a crescere, passando da 62 milioni di tonnellate nel 2015 a 102 milioni nel 2030. Di conseguenza, secondo le stime aumenterà l’inquinamento e i rischi per l’ambiente.

Ma cosa fare per limitare l’impatto devastante del mondo della moda, soprattutto quella delle catene “fast fashion”? Una raccomandazione dell’Unione Europea riporta che nel 2030 ci dovranno essere quantità minime obbligatorie per l’utilizzo di fibre riciclate nel settore tessile. Indicazione “troppo vaga”, secondo la rivista Nature: “Senza obiettivi più specifici sarà molto difficile ottenere risultati conformi. La Cina, il più grande produttore tessile al mondo, ha un piano quinquennale di economia circolare per l’industria tessile”. Nature traccia la strada da seguire, ovvero l’economia circolare. Primo, utilizzare prodotti che durano più a lungo e materiali riciclati; secondo utilizzare macchinari a basso impatto ambientale, capaci di sviluppare ed espandere l’uso di tecnologie che facilitino processi produttivi sostenibili, come appunto il riciclo.

Sicuramente, la strada più percorribile da tutti è quella di comprare meno vestiti, e far circolare quelli che sovrabbondano negli armadi.

L'ECO di San Gabriele
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