UN “GIALLO” PER RIPARTIRE
Un corso di scrittura di due anni tenuto dentro al carcere Don Bosco di Pisa, con i detenuti impegnati in un’attività creativa e che, alla fine, produce un romanzo, un noir, edito da una casa editrice. È quello che è successo con Malaspina, un romanzo collettivo scritto a “dieci” mani, da otto detenuti e coordinato da due giornalisti: Michele Bulzonì, che ne ha curato anche le illustrazioni e Antonia Casini. La casa editrice è la MDS: il progetto ha ricevuto il patrocinio di Comune di Pisa, Unione Camere Penali Italiane, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Pisa. Le introduzioni, invece, le hanno scritte in due: l’ex direttore del carcere pisano Fabio Prestopino, ora a Sollicciano e l’attuale direttore Francesco Ruello. I diritti d’autore saranno devoluti a progetti di reinserimento dei detenuti nella società.
Questa la trama. Tutto comincia con un articolo di giornale che denuncia la sparizione della spina di Cristo dalla chiesta di Santa Maria della Spina. Da qui l’idea di indagare: dentro le mura del penitenziario di Pisa gli ospiti, costretti nelle celle, sfruttano la loro ora d’aria per investigare e capire cosa sia successo dentro il tempio che si affaccia sul lungarno. La spina doveva essere lì per l’inaugurazione della mostra dell’artista tedesco, che tanto l’aveva voluta come cornice alle sue barche di cera, ma alla sua apertura il sacrario era vuoto. Giornali e televisioni dicono poco, quel tanto che basta per raggiungere i galeotti e insinuare in loro dubbi e curiosità. Quei pochi fortunati che godono dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che permette agli internati di svolgere un’attività lavorativa fuori dal carcere, impiegano ogni minuto lontano dalle sbarre per conoscere la verità. Qualcuno si avvicina pericolosamente alla realtà delle cose, altri invece rischiano persino di essere implicati nel fatto. Tutti colpevoli e tutti innocenti in una vicenda più che intricata. Una dicotomia che attanaglia l’intero penitenziario che riesce persino a intrecciare il mondo esterno, quello degli uomini e donne liberi.
“Il più delle volte ci ritroviamo, dopo il lavoro, a dover scaldare una pentola per poterci togliere da dosso quella puzza di fatica e di stanchezza che ogni sera ci portiamo dietro. Un tegame pieno d’acqua, intiepidito su un fornello comprato nel magazzino a nostra disposizione: le docce non funzionano e spesso sono talmente gelate da toglierci il fiato”, si legge in uno dei passaggi del brano di Andrea, uno degli otto detenuti-scrittori.
“In tutto questo tempo, abbiamo ascoltato tante storie, ci siamo commossi e arrabbiati. Alcuni dei nostri studenti hanno trovato la morte, qualcuno (per fortuna pochi), è tornato a delinquere e c’è stato anche chi ha abbandonato tutto, anche le conquiste fatte, approfittando della libertà appena conquistata. Ma molti lottano per riacquistare un posto nel mondo. E anche se uno solo ci riesce per noi è un piccolo miracolo”, hanno raccontato i due giornalisti-curatori.
“Ogni nostro allievo – spiega Michele Bulzonì – ha creato un capitolo, quindi non comunicando tra loro. La particolarità sta nella collazione del libro”. “Sono molti legati anche alla città, città che vivono solo in una parte, che è quella reclusione. Quindi l’esercizio è stato parlare al di fuori da dentro”, conclude Antonia Casini.