questioni che minano l’illusoria conquista
della tranquillità
Per l’Europa, in stato d’assedio, ci sono altri problemi oltre a quello di Atene, comunque risolto in due infuocate settimane all’inizio dello scorso luglio. Il referendum dello scorso 5 luglio, indetto in Grecia sulle proposte dell’Unione Europea per l’uscita dalla crisi, aveva portato a una trionfante conclusione (61% dei voti) per il governo e il suo leader Alexis Tsipras, recalcitrante a Bruxelles, e al risultato, una settimana dopo, di un compromesso aspramente negoziato, duro per i greci ma ancora forse digeribile.
Ma è mancata l’impressione di una grande salute politica dell’Unione Europea dal balletto di riunioni, incontri, vertici, direttivi, proposte provocatorie, prolungatosi nello scambio di battibecchi e polemiche che non mancheranno di lasciare strascichi. E nell’opinione pubblica la sensazione di amarezza per un sogno, l’Europa, ridotto a scambio di mercanzie e traffici di bilanci. Senza che mai sia emerso il concetto di solidarietà verso i più bisognosi (anche se dilapidatori, perché no: la conosciamo la parabola del figliol prodigo?), nella carenza di un riferimento generale, che non si è voluto introdurre, alle radici cristiane.
In questo 2015, che è stato celebrato come il settantesimo anno di pace (salvo le non trascurabili eccezioni delle guerre balcaniche dell’ultimo decennio del 900 e il conflitto fra Grecia a Turchia che ha paradossalmente coinvolto nel 1974 due alleati nella Nato), attorno al vecchio continente si sono addensate questioni che minano l’illusoria conquista della tranquillità.
In primo luogo la mancata soluzione del problema dei migranti che, fra i paesi europei e all’interno di molti di essi, sta sollecitando contrasti al limite della rissa. Alla fine di quest’anno, secondo stime attendibili, si aggireranno sulle 250mila unità le persone in fuga, con approdo Europa, da teatri di guerre e da condizioni estreme di bisogno: la maggior parte attraverso il Mediterraneo in tragici viaggi che stanno facendo di quel mare un cimitero a cielo aperto, ma anche via terra dalle regioni a est dell’Europa continentale.
Qui non contano i numeri quanto la percezione (erronea, peraltro, secondo gli esperti) di una nascosta minaccia di invasione e il timore che i nuovi venuti sottraggano lavoro e risorse ai nativi. Purtroppo la situazione fa scattare un riflesso razzista e di autodifesa: a nulla valgono i ragionamenti sull’infima percentuale dei richiedenti asilo, sui doveri della solidarietà umana che si deve agli “ultimi”, sull’apporto positivo all’economia, alla demografia, alla multiculturalità da parte di tanti immigrati. Per motivi demagogici e di strumentalizzazione politica si invoca il ricorso alle ruspe e in qualche caso addirittura all’uso delle armi.
E anche se i pericoli di “invasione” rispondono più a pregiudizi che a realtà, si generalizza e si incancrenisce il sentimento, coltivato anche dai media, dell’assedio, della violenza esterna: tanto peggio quando l’argomento assume una portata interstatuale e si assiste allo spettacolo di paesi che presumono di far parte della civiltà occidentale e si arroccano nella difesa di privilegi “nazionali”, rinunciando a elementari principi di solidarietà umana che costituiscono la base etica della stessa appartenenza all’Europa unita.
Più reale, questo sì, il rischio del terrorismo islamista, che si è concretizzato in episodi dei quali le cronache si sono ampiamente occupate, da Madrid a Londra, da Parigi a Bruxelles a Tunisi. A due ore di volo dalla Grecia e dalla Spagna, a tre dall’Italia e dalla Francia, ormai l’internazionale degli assassini (una parola araba) si è diffusa come una metastasi in Medio Oriente, controlla larghe zone di Siria e Iraq, si è radicata in alcune teste di ponte in Libia e nel Sinai, allunga le sue alleanze nell’Africa subsahariana, a ovest e nel sud est del continente nero.
Tutti obbediscono agli stessi ritmi di stragi, di morte, di violenze, di stupri, di ruberie degli adepti del cosiddetto califfato che ha colto di sorpresa non soltanto i paesi assaliti ma anche l’Occidente, con una capacità di proselitismo e un senso di organizzazione di cui non sarà facile venire a capo. In Europa la sopravvenuta consapevolezza del pericolo spinge a misure di sicurezza che, comunque, non attenuano il timore di fanatici isolati, disposti purtroppo a sacrificare la vita in nome di un Dio crudele che non esiste.
L’ultimo rischio si sta materializzando a est, con un ritorno alla guerra fredda di infausta memoria. La Russia di Vladimir Putin vuole recuperare lo spazio di influenza sottrattole dall’accessione all’indipendenza della corona di stati comunisti satelliti e di alcune fette della stessa Urss. Così si alimentano conflitti che non sono tali ufficialmente, con la Georgia prima, con l’Ukraina in tempi recenti. La riannessione della Crimea è stata un campanello d’allarme ed è all’inizio di una serie di reazioni e di timori dell’Occidente; in particolare di quelle nazioni (la Polonia, i paesi baltici) che si sentono minacciati dal neoespansionismo russo.
Il Cremlino nutre timori per il dispiegamento ai confini da parte della Nato di sistemi di allarme che da difensivi possono prestarsi a diventare offensivi, e per l’intensificarsi nel Baltico di manovre militari aeronavali in combinata con quelle di terra fra reparti Usa e unità lituane, lettoni e polacche. Resta tuttavia che, per il momento, l’intervento armato reale (peraltro mimetizzato) è quello dei russi in Ukraina, che ha portato l’Europa a una serie di misure punitive che sembra abbiano fatto molto male all’economia di Mosca, fra l’altro per il contemporaneo crollo del petrolio, la vera ricchezza del paese, sui mercati internazionali. Putin ha dedicato il 14 per cento del bilancio allo sviluppo delle forze armate e ha avuto accenti perentori sulle capacità offensive del suo esercito. Ce n’è abbastanza perché, anche a nord est, l’Europa abbia la sensazione dell’assedio.