UN CONTINENTE IN CRESCITA

PROTAGONISTA DELLA STORIA
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 1 Maggio 2013

Nel primo saluto ai fedeli che sono andati a festeggiare a piazza San Pietro la sua elezione, papa Francesco ha detto che i cardinali sono andati a prenderlo “quasi alla fine del mondo”. In effetti, dal punto di vista geografico è così, perché l’Argentina condivide con il Cile, nel Canale di Beagle, il punto più meridionale delle terre emerse. Ma con quale America Latina si confronta oggi un papa espresso dalla cultura di una parte del pianeta che ribolle di energia, tensioni e contraddizioni? Possiamo forse parlare di giustizia della storia: il subcontinente – e con il Messico che fa parte del Nordamerica – conta metà dei battezzati di rito cattolico-romano e uno dei suoi paesi, il Brasile, ne può vantare il maggior numero in assoluto. A ciò si aggiunge il ruolo svolto in cinquecento anni da quelle terre, ruolo apparentemente marginale, per lo meno sino agli inizi dell’ottocento, quando si conquistò l’indipendenza dagli imperi europei, con figure di tutto rispetto come i “libertadores” Simone Bolivar e José de San Martin. Ma le vicende dell’America del Sud si sono sempre intrecciate con quelle del pianeta, sia perché a lungo lo sfruttamento di quei possedimenti – con una politica essenzialmente di rapina – permise al vecchio continente, esausto da troppe guerre, di rafforzare la propria economia, sia perché il nuovo mondo offrì a tanti europei occasioni e possibilità di nuove esistenze. Così oggi gli ispanici e i lusofoni sono diventati protagonisti della storia: e nulla può illustrare questo percorso meglio dell’ascesa al soglio di Pietro di un cardinale argentino. Già altri elementi, però, preparavano il terreno a un evento come quello che si è verificato. La grande cultura del mondo contemporaneo deve (per limitarci a pochi esempi) all’America Latina sette premi Nobel per la letteratura, cinque per la pace, quattro per la medicina. Cui aggiungere personalità di grande rilievo: scrittori, poeti, scienziati, pittori, architetti di fama internazionale. Senza contare la schiera dei santi e beati – citiamo a memoria Martino da Porres, Rosa da Lima, Luis Bertran, Francisco Solano, Pedro Claver, Junipero Serra, i martiri messicani – che da cinque secoli costituiscono l’onore religioso del continente. Ed è opportuno ricordare  le vittorie in nove coppe di calcio mondiali sulle ventidue disputate in ottanta anni: fanno parte anch’esse degli eventi mondiali. Oggi l’America Latina si trova a un passaggio cruciale perché esprime, sia pure in maniera talvolta confusa, un proprio modo di  essere protagonista. Non a caso il Brasile, l’altro “gigante americano” con gli Usa, da una parte registra uno dei maggiori tassi di sviluppo sul piano economico, dall’altra ha messo in moto, in autonomia dalla superpotenza nordamericana, un processo che, rispettoso delle regole di libertà dopo decenni di governi autoritari, è attento agli interessi di tutti, specialmente degli strati più deboli della società. Qualcosa di simile è potuto accadere dagli anni Novanta in gran parte del subcontinente grazie al ritorno della democrazia, dopo il totale fallimento delle dittature e dei regimi militari repressivi. Nell’ultimo decennio, del resto, la violenza dei colpi di stato si è andata progressivamente estinguendo e anche là dove, come in Guatemala e Salvador, in Colombia, in Messico – quest’ultimo  alle prese con la criminalità organizzata e il traffico di droga – persistono tensioni civili, non c’è comune misura con quanto accaduto in passato; a parte qualche scintilla fra Ar-gentina e Inghilterra per la questione delle isole Falkland. Arrivano al potere politici qualificati “di sinistra” soltanto perché  molto più attenti alle domande popolari: in Brasile e in Cile, forse con tentazioni autoritarie in Venezuela, Ecuador, Bolivia. Favorendo in ogni caso riforme strutturali nel rifiuto di sentirsi “cortile di casa” degli Stati Uniti,  dalla cui politica ci si sta progressivamente affrancando. Allo stesso modo è stato messo alla porta, da Brasilia e da Buenos Aires, il Fondo monetario internazionale con le sue politiche decisamente classiste e asservite agli interessi statunitensi. I maggiori successi economici si registrano in Brasile e in Messico, e in nazioni più piccole come il Costarica, l’Uruguay, il Perù: ma un po’ dappertutto, anche se faticosamente, si sta cercando di investire sul capitale umano, con l’istruzione popolare e le cure mediche alle classi popolari, così che queste, insieme con le etnie sino a ieri neglette, cominciano a uscire dalle condizioni di miseria, le cui sacche peraltro sono ancora presenti. E se a ciò non corrisponde la riduzione delle ineguaglianze, di cui il continente ha il record (salvo in Brasile, Venezuela e Cile), è certo che, dopo il passaggio del millennio, si sta verificando un regolare aumento del tenore di vita generale, l’emergere della classe media, la crescita del prodotto interno lordo che potrebbe suscitare l’invidia dei disastrati paesi europei. Particolarmente interessante l’evoluzione che ha caratterizzato l’Argentina, colpita alla fine del passato millennio da una crisi che vide la metà della popolazione ridotta in povertà, e risollevatasi per merito di interventi (si parla di “riabilitazione delle politiche sociali”) che hanno coinvolto tutte le forze del paese, civili e religiose. Non è un caso, quindi, se dalla “fine del mondo” sia stato espresso il capo di una chiesa che della giustizia fa una sua bandiera, con tutte le responsabilità che ormai ogni cattolico latinoamericano dovrà assumersi dinanzi al mondo.

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