UN ARGINE AL VIRUS DELL’ODIO SOCIALE
“Papa Francesco ha intuito questa deriva culturale e non passa giorno che non ci metta in guardia contro le ingiustizie, le discriminazioni e il linguaggio dell’odio che nel passato ha trasformato la rabbia sociale in energia di cambiamento”
In fin dei conti cosa hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un immigrato». Se è vero che uno dei parenti degli aggressori di Willy, il ragazzo barbaramente pestato a morte a Colleferro da un branco di energumeni palestrati, ha fatto questa affermazione ci troviamo di fronte all’idea che non tutte le vite umane sono uguali e che la dignità delle persone va commisurata al colore della pelle. Si chiama odio sociale. Un odio che sta percorrendo la nostra società come un virus che non trova argini. Come il Covid-19, o peggio. È una malattia sociale che trae la sua forza dalle disparità sociali, dal senso di insicurezza che vivono le nuove generazioni. Non è difficile farla attecchire con argomentazioni capaci di raggiungere e mettere in moto gli istinti più bassi e violenti delle persone. Soprattutto quando manca un substrato culturale capace di filtrare i disvalori che la società produce. Quante volte abbiamo letto sui social, sentito nella cerchia degli amici e anche in quella più ristretta del nucleo familiare: “Questi ci tolgono il pane dalla bocca, vengono a mangiare nel nostro già misero piatto”.
Attenzione: non si tratta di un fenomeno nostrano. La vicenda di George Floyd negli Usa ha sicuramente caratteristiche diverse da quelle di Colleferro, ma sono legate probabilmente da una visione dell’altro, del “diverso”, le cui scaturigini si rintracciano anche nel pregiudizio razziale. Insomma, non siamo dell’idea che gli abitanti del Bel Paese siano razzisti. No. Ma non siamo nemmeno dell’idea, che per troppi anni ha albergato nell’immaginario collettivo nazionale: quella degli “italiani brava gente”. I segnali che ci arrivano dalle cronache quotidiane dovrebbero far scattare il campanello d’allarme. La storia, si sa, non è buona maestra di vita, per il fatto che spesso la ignoriamo e che la nostra memoria, al tempo del digitale, si consuma tutta nel presente. Nel mentre che accade. Tutto il resto, quello che è stato ieri, per non parlare di ieri l’altro, è destinato all’obliterazione mnemonica.
Papa Francesco ha intuito questa deriva culturale e non passa giorno che non ci metta in guardia contro le ingiustizie, le discriminazioni e il linguaggio dell’odio che nel passato ha trasformato la rabbia sociale in energia di cambiamento. E i risultati si sono contati in milioni di morti, in persecuzioni e annientamenti etnici, campi di sterminio e gulag. La cronaca, allora. Se per la conoscenza della storia occorre studio, quello della cronaca richiede meno sforzi. Perché allora non si leva dai palazzi che contano un corale moto di sdegno contro questi fatti? Perché si tende a interpretarli o isolarli con malcelata superficialità? Non è più il momento di sottovalutare questi episodi, quando anche ignorarli. O peggio, strumentalizzarli nella sfera pubblica per questioni di consenso politico.
Il disagio giovanile nasce dalle difficoltà economiche, dalla mancanza di lavoro, dall’idea delle facili scorciatoie sociali che spesso si declinano con affiliazioni criminali o paracriminali. È un disagio che porta a identificare le cause con falsi obiettivi. Non è questione di palestre e di tatuaggi. Il malessere è sociale: la disoccupazione giovanile, la mancanza di certezze per il futuro, la precarizzazione della vita quotidiana. Questa è la cosa che conta, tutto quello che ne deriva sono sintomi collaterali.