A Pechino Jinping, 64 anni, è stato proclamato, praticamente a vita, presidente della Repubblica popolare cinese mentre Vladimir Putin, dopo l’elezione trionfale dello scorso marzo, si trova al quarto mandato di presidente della Russia
La conferma in queste settimane dei “poteri forti” in Cina e Russia, Xi Jinping e Vladimir Putin, è contemporanea ai risultati della più recente inchiesta internazionale secondo cui vivono in regimi autoritari 58 paesi su 132, cioè tre miliardi e trecento milioni sui sette miliardi e mezzo di abitanti della terra; e, fra le dittature, poco meno della metà in Cina (un miliardo 410 milioni) e Russia (circa 147 milioni).
A Pechino Jinping, 64 anni, è stato proclamato, praticamente a vita, presidente della Repubblica popolare cinese, e contemporaneamente Segretario generale del Partico comunista e comandante in capo delle forze armate. L’Assemblea del Popolo lo ha eletto all’unanimità (2957 voti a favore, due contro, tre astenuti e uno nullo). Il “pensiero” di Xi Jinping entra a far parte della Costituzione cinese e al capo dello stato sono attribuiti i pieni poteri e supervisione e controllo dei membri del partito e dell’amministrazione nella lotta alla corruzione: una vicenda che dal 2012 ha coinvolto un milione e 400mila persone (parecchie delle quali condannate a morte) e alla quale si attende si aggiungano in un futuro abbastanza prossimo altri due milioni di imputati. Dietro la moralizzazione si nasconde lo scontro con gli oppositori, in una caratteristica che contraddistingue il regime cinese dagli anni della conquista del potere da parte di Mao Tsedong nel 1948.
La Repubblica popolare cinese è il paese più popolato e la seconda economia del mondo, e il suo sviluppo è esploso all’alba del terzo millennio. Pechino ha ramificato i propri interesse, oltre che in Asia, anche in America Latina e nel continente africano. Qui è in atto una vera e propria colonizzazione fatta di prestiti a tassi minimi ai governi (molti dei quali fra i più corrotti), di costruzioni di opere pubbliche, di acquisti di terre agricole (i cui prodotti vengono dirottati in Cina), di diffusione di merci a basso costo: una politica, peraltro, che in alcuni paesi ha suscitato rivolte popolari e condotto a rotture di relazioni. Ma la Banca centrale cinese ha anche nelle sue riserve oltre mille miliardi di dollari; e ciò spiega la mossa di Donald Trump che renda il debito statunitense meno gravoso attraverso l’imposizioni di dazi per 60 miliardi in circa cento categorie merceologiche. La risposta di Pechino ha riguardato prodotti americani a loro volta tassati per tre miliardi. Sono avvisaglie di guerra commerciale che non trovano la Cina in situazioni di debolezza, anche per la disinvoltura (potremmo parlare di sfacciataggine) con cui essa si muove sul piano internazionale. Già qualche esperto occidentale parla di un “Afghanistan economico” scatenato dal presidente americano.
E se di Xi Jinping si può parlare come di un “imperatore”, a Vladimir Putin va la qualifica di “zar”, dopo l’elezione trionfale nel marzo scorso (76,6 per cento dei voti popolari) al quarto mandato di presidente. Polverizzati i dieci avversari, mandati in carcere o sottoposti a giudizio gli oppositori, impedite le manifestazioni di dissenso, messi a tacere i giornalisti scomodi (si avanza il dubbio su recenti eliminazioni fisiche), il nuovo padrone della Russia si muove con arroganza anche a livello internazionale. Indifferente alle stragi compiute dal suo alleato siriano Bashar al-Assad (anche con il sospetto uso di armi chimiche) che continuano a portare alla morte centinaia di civili, Putin se lo tiene caro per assicurarsi a perpetuità una base a Tartus nel Mediterraneo.
Fa sapere di essere in possesso di armi atomiche in grado di non essere reperite dagli avversari (anche se si è propensi a credere a un bluff) e minaccia gli alleati baltici della Nato istallando postazioni missilistiche nell’enclave di Kalinin, al confine con la Polonia. La vicenda più recente, divenuta un caso internazionale, riguarda l’attentato all’arma chimica contro una ex spia russa, rifugiata in Inghilterra, in agonia insieme con la figlia. Le autorità britanniche hanno lanciato dure accuse, sia espellendo ventitré diplomatici di Mosca, sia riaprendo una dozzina di casi di morti misteriose di cittadini russi riparati in Gran Bretagna. A sua volta un numero pari di diplomatici inglesi è stato espulso dalla Russia, ma Londra ha ricevuto la piena solidarietà dell’Unione Europea e degli Stati Uniti.
L’episodio viene messo in conto al cinismo di Putin che, con un colpo di mano militare, ha sottratto la Crimea all’Ukraina, sta riducendo la Cecenia (formalmente indipendente) a un vassallo e tiene sotto scacco la Georgia. Nonostante l’apparenza di regime forte, però, l’economia russa (nel paese più vasto del mondo) denuncia difficoltà anche a causa della diminuzione del prezzo del greggio, che sino a poco tempo fa era stato il motore della crescita. Con qualche timore, nonostante i buoni rapporti che sembrano legare Mosca e Pechino, per il dinamismo cinese attraverso la riaperta “via della seta”, che rischia di escludere l’economia russa almeno da una delle grandi correnti di traffico internazionale, quella che lega l’Asia all’Europa. Per il momento i due autocrati si inviano con grande calore reciproci complimenti e fraterne congratulazioni per le nomine rispettive. Anche se in qualche parte fra la Siberia e il nord cinese del Sinkiang fermentano tensioni di confine che non si sono mai completamente spente e che, in passato, alimentarono anche vere e proprie guerre.