Le notizie dei suicidi provenienti dalle carceri italiane e in particolarE da quelle abruzzesi (Teramo e Sulmona), per anni, non han-no allertato le pubbliche co-scienze sulla disumanità delle condizioni di vita nei penitenziari sovraffollati. La sistematica violazione della civiltà giuridica, che pone al centro l’uomo e la sua dignità, per anni, non ha destato l’interesse del ceto politico che, al contrario, con leggi (Bossi-Fini) discutibili, per non dire altro, ha contribuito, in modo determinante, a rendere strapiene, luride e incivili le nostre carceri. Nemmeno i riferimenti storici, come quello di Silvio Pellico, rinchiuso nella fortezza dello Spielberg, che con Le mie prigioni descrisse in maniera impietosa le condizioni di privazione della dignità, hanno fatto arrossire i nostri politici quando hanno accantonato, qualche giorno prima della fine del governo Monti, il disegno di legge sulle pene alternative al carcere. Sarebbe stato un modo per alleggerire il sovraccarico umano nelle strutture fatiscenti dei penitenziari; un modo per impedire che si continui a morire in cella così come avviene nel penitenziario di Teramo che dopo quello di Rebibbia e Lecce è il terzo in Italia per tentati suicidi.
Ma nemmeno la solitaria battaglia di Marco Pannella, che per il rispetto della dignità dei detenuti mette a repentaglio la propria esistenza, ha smosso più di tanto l’impassibile atteggiamento della politica nazionale. Eppure nel nostro ordinamento ci sono le regole di una civiltà giuridica che pone al centro di tutto la persona e il rispetto della sua dignità. Un diritto prevalente su ogni altro.
La domanda, allora, è: perché non siamo capaci di impedire che coloro i quali varcano quel portone (colpevoli o innocenti) siano privati, oltre che della libertà, anche del diritto supremo al rispetto della loro dignità? Non possiamo buttare la chiave e dimenticarci di coloro che hanno sbagliato o hanno violato le regole della convivenza civile. Bisogna spiegare (e questo è compito prima di tutto dei giornalisti) che le misure alternative al carcere non “sono un tornare in libertà”, come si legge talvolta in troppi titoli di giornali, ma solo un altro modo, previsto dalla legge di scontare la pena. È proprio grazie alle misure alternative che moltissimi detenuti riescono ad avviare un concreto progetto di reinserimento nella società civile, che riduce sensibilmente il rischio di ripetere comportamenti delittuosi. È questo l’obiettivo a cui dovrebbe tendere un paese che si definisce civile o anche “culla del diritto”.
Il sovraffollamento è intollerabile anche per una ragione di fondo: la presenza di migliaia di detenuti in attesa di giudizio metà dei quali, statisticamente, verrà assolta. Dobbiamo essere noi giornalisti a risvegliare le coscienze, pubbliche e private, sopite di fronte a questi enormi problemi del rispetto dei diritti umani. Dobbiamo essere noi i primi a usare termini appropriati in tutti i casi in cui un detenuto usufruisce di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari evitando di sollevare ingiustificati allarmi sociali e di rendere più difficile un percorso di reinserimento sociale che avviene sotto stretta sorveglianza. La strumentalizzazione politica è sempre pronta ad approfittare di questi allarmi che provocano nell’opinione pubblica sommovimenti di pancia più che di intelletto.