La “guerra a pezzetti”, di cui per primo ha parlato papa Francesco, è diventata un vero e proprio conflitto internazionale; il mondo deve mettersi d’accordo sul clima, a rischio di consegnare al futuro un pianeta invivibile; l’Europa è obbligata a decidere – fra lotta al terrorismo e problema dei migranti – che cosa farà se vuole sopravvivere che cosa resterà dell’appena trascorso 2015? Gli esperti sostengono che, dopo il 2001 delle Torri gemelle, questo sia stato l’anno più drammatico del nuovo millennio per almeno tre ragioni: la “guerra a pezzetti”, di cui per primo ha parlato papa Francesco, è diventata un vero e proprio conflitto internazionale; il mondo deve mettersi d’accordo sul clima, a rischio di consegnare al futuro un pianeta invivibile; l’Europa è obbligata a decidere – fra lotta al terrorismo e problema dei migranti – che cosa farà se vuole sopravvivere.
A nessuno dei tre problemi può essere data una risposta nel breve termine. Le stragi parigine di novembre hanno indotto a un salto di qualità (con inedite alleanze tra Francia e Russia, e addirittura sotterranee intese fra Stati Uniti e Iran) nella strategia contro il terrorismo fondamentalista, forse sottovalutato dopo altri eccidi, a Madrid, a Londra, nella stessa Parigi con l’assalto e i morti in gennaio contro la redazione di Charlie Hebdo, e nonostante i ripetuti, efferati crimini perpetrati specialmente l’anno scorso sul terreno di battaglia del Medio Oriente: assassinii, esecuzioni di gruppo, violenze di ogni genere, stupri, furti, presa di ostaggi, distruzioni di preziosi beni culturali, traffici illeciti (droga compresa), addirittura spingendo i bambini a farsi esecutori di omicidi.
Sarà necessaria una riflessione comune – non sono sufficienti i bombardamenti e le riduzioni al silenzio del nemico – da parte di quel mondo occidentale che si vanta delle sue conquiste civili ma che, allo stesso tempo, non ha condiviso in modo equo i propri progressi materiali e le possibilità di sviluppo con altre aree e altri popoli. Dando anzi l’impressione, attraverso la cosiddetta globalizzazione, di profittare dei vantaggi acquisiti per perpetuare, sotto altre vesti, nuove forme di colonialismo. E tutti quindi sono chiamati a fare i conti con lo sfruttamento selvaggio del pianeta, come è accaduto con il vertice svoltosi a Parigi alla fine di novembre, dedicato appunto ai disastri dell’ambiente.
Può essere in qualche modo rassicurante l’assunzione di responsabilità da parte dei maggiori inquinatori (fra essi Cina e Stati Uniti, che hanno concordato di ridurre le emissioni di CO2, quelle cioè che maggiormente avvelenano l’atmosfera), impegnati in uno sforzo che comporta rinunce economiche: quasi come risposta all’alto ammonimento contenuto nell’enciclica Laudato si di papa Francesco. Ma è pur vero che alle buone intenzioni devono seguire i fatti.
Un compito che spetta anche all’Europa (inquinatrice non da poco), sottoposta nel trascorso 2015 a una serie di crisi che ne minacciano la stabilità e il futuro. Non soltanto perché è chiamata in causa dalla risposta da dare (e che sembra per il momento abbastanza unitaria) alla sfida ai propri valori, civici ed etici, da parte dei tagliagole del sedicente stato islamico, ma soprattutto perché il “sogno” dell’unità continentale è incrinato nei fatti da comportamenti che accentuano le divisioni. Come dimostrano le due vicende legate rispettivamente alla Grecia e al flusso migratorio. Nel primo caso, bene o male, si è trovato un accordo che permetta ad Atene di restare nell’Unione: dopo convulse trattative, talvolta al limite della rottura con Bruxelles, e due elezioni e un referendum che hanno permesso di ricucire i rapporti con un’Europa spaccata fra i sostenitori del compromesso e i falchi dell’abbandono del paese al proprio destino.
Sembra quindi che abbia prevalso il buonsenso, a differenza di quanto accade per l’altro problema, quello dei migranti in fuga da teatri di guerra e di violenza, che si aggrappano al vecchio continente come mèta delle loro speranze. Lo scorso anno sono stati, secondo gli ultimi calcoli, oltre un milione e duecentomila, in un flusso disordinato via mare e via terra che sta mettendo a dura prova i sistemi di sicurezza dei paesi della fascia mediterranea e di quelli confinanti con i Balcani. Non è stato trovato sino a ora un sistema coerente di coordinamento, per cui le modalità di accoglienza sono diverse, talvolta apertamente ostili (in Ungheria, Polonia, Slovacchia), portando a tensioni che pongono qualche interrogativo sulla omogeneità politica e civile dell’Unione.
Sarebbe ingiusto, comunque, limitarsi alle crisi in corso. Perché in altri casi si sono trovate soluzioni positive, a cominciare dall’accordo sul nucleare iraniano. L’intesa (criticata da Israele e dall’Arabia Saudita) è un successo del presidente americano Barack Obama, che, con la riapertura delle rispettive ambasciate, porta a casa un altro risultato: la fine, dopo cinquantacinque anni, del contenzioso con Cuba, favorita, come si sa, dalla mediazione vaticana.
Altre questioni restano aperte, dalla situazione di guerra strisciante in Ukraina, che sancisce il ritorno della Russia sulla scena internazionale, ai conflitti locali in Africa (Mali, Nigeria, Centrafrica, Burundi). Né è possibile trascurare il momento che sta attraversando la Cina, con qualche difficoltà di natura finanziaria ma una sempre più evidente pretesa di contendere agli Usa l’egemonia mondiale, estendendo le sue zone di influenza ma anche suscitando qualche tensione con i suoi vicini del Pacifico. Anche la Turchia sta vivendo in condizioni di ambiguità, fra una stretta autoritaria impressa dal presidente Recep Tayyp Erdoğan, la necessità di restare agganciata all’Occidente e i riflessi dei conflitti di Siria e Iraq ai confini. Il bilancio non si esaurisce qui: c’è soltanto da sperare che, nel 2016, la storia del mondo sia meno drammatica.