STRESSATI E LASCIATI SOLI

Insegnanti in fuga?
By antonio sanfrancesco
Pubblicato il 2 Settembre 2019

“Deve pensarci la scuola!». Quante volte abbiamo detto o sentito dire questa frase. Dai casi di bullismo alle baby gang, dalla lotta alla droga ai tanti casi di cronaca che riguardano gli adolescenti nelle trincee delle periferie. “Deve pensarci la scuola!”. Sì, ma alla scuola e alle persone che vi lavorano chi ci pensa? O meglio: chi ci deve pensare? La politica? O quel ministero dell’Istruzione che inonda presidi o insegnanti di circolari in burocratese come questa: “sollecitare l’esperienzialità dell’alunno, tenendo conto del percorso multiformativo e multifunzionale nel quale si trova immerso nel giorno d’oggi”?

Insomma, fare l’insegnante è sempre stato difficile. Oggi, forse, un po’ di più.

I casi di cronaca parlano chiaro: c’è l’insegnante di Alessandria legata con lo scotch alla sedia e poi presa a calci dagli studenti. Il vicepreside della scuola media Murialdo di Foggia, che ha rimediato trenta giorni di prognosi dopo essere stato preso a pugni sulla testa e sull’addome dal genitore di un alunno rimproverato il giorno prima perché, spingendo mentre era in fila, rischiava di far ruzzolare altri studenti.

L’alunno di una scuola di Avola rimproverato dal professore di educazione fisica che ha telefonato seduta stante ai genitori, che di lì a poco sono arrivati ad aggredire l’insegnante rompendogli una costola. O l’insegnante dell’Istituto tecnico commerciale Bachelet di Santa Maria a Vico, Caserta, accoltellata da un alunno sedicenne perché gli aveva offerto l’opportunità di venire interrogato per recuperare un’insufficienza. Intendiamoci: i singoli casi di cronaca vanno trattati per quelli che sono, ricordando che la responsabilità è sempre personale e che questi casi accadono in un sistema scolastico – è impopolare dirlo – che funziona generalmente bene.

Insegnanti in fuga, o quasi

Uno dei problemi è che s’è rotta l’alleanza tra scuola e famiglia e la scuola, intesa come istituzione, protegge poco gli insegnanti. E loro se ne vanno. Sempre di più. Sessantadue (l’età) più trentotto (i contributi). È la formula della “Quota 100” approvata dal governo gialloverde per andare in pensione. Tra i dipendenti pubblici le domande presentate fino allo scorso 3 giugno sono state in totale 46.099. Dal comparto scuola sono arrivate 32.100 richieste, il numero più alto, 18.700 inviate dal corpo docente, secondo i calcoli dell’Inps, più o meno in linea con le stime dei sindacati che prevedono fino a venticinquemila uscite annuali con Quota 100, alle quali vanno aggiunte altre quindicimila uscite con i requisiti ordinari. Secondo le associazioni di categoria a settembre resterebbero scoperti tra i 120 e i 140mila posti, azzerando, di fatto, le centodiecimila stabilizzazioni dei precari fatte con la Buona scuola.

Nessun esodo, sia ben chiaro. “Il comparto scuola ha un milione di dipendenti, se il 5 per cento ogni anno va in pensione, si liberano circa cinquantamila posti, è fisiologico – afferma Antonello Giannelli, presidente nazionale dell’Anp (l’Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola) – quest’anno le uscite saranno un po’ di più a causa di Quota 100 ma è tutto nella norma. Le assunzioni con la Buona scuola sono state circa ottantamila, che sono pari, più o meno, alle uscite di due anni. Il vero problema è che non riusciamo ad avere un meccanismo di assunzione così efficiente e veloce in grado di garantire 40-50.000 insegnanti assunti all’anno. Questo problema ne causa altri. È naturale che le organizzazioni sindacali chiedano che si assuma però è quasi impossibile fare un concorso ogni anno con tanti posti da coprire”.

Qual è dunque la soluzione? “Il meccanismo attuale funziona poco – spiega Giannelli – non tanto per i numeri ma perché non è in grado di garantire la persona giusta al posto giusto. Purtroppo, a dispetto di tanti bei discorsi, c’è una diffusa convinzione che un buon docente, per essere tale, basta che sia laureato o abbia vinto il concorso e basta. Non è così. Avere un buon docente è una cosa molto difficile. Nessuno si farebbe operare da un neo laureato in Medicina, però tutti pensano che ai nostri figli possano insegnare persone appena laureate o che hanno vinto un concorso. Questo è il vero problema. Attenzione, non sto dicendo che la laurea non serve, ovviamente, ma che non basta. All’estero il problema del reclutamento è stato risolto facendo assumere ai presidi con tutti gli oneri e la responsabilità che questo comporta. Da noi però è ritenuto persino scandaloso, i presidi sono considerati nepotisti, dispotici, inadatti. Ma se si manda in classe una persona incapace, dopo due giorni se ne sono accorti tutti. Il controllo sociale è così cogente che un preside non può sbagliare o fare scelte a cuor leggero. Se adottassimo questo metodo, avremmo in Italia ottomila centri di assunzione, tanti quante sono le scuole”.

Oggi il sistema si “regge” anche sui supplenti con infinite polemiche a ogni avvio di anno scolastico. “L’alternativa è chiamare supplenti dalle graduatorie, valutandole in base all’anzianità o ai titoli di studio – dice Giannelli – sono due indicatori importanti, senza dubbio, ma bastano per assicurare l’idoneità, per esempio, di un insegnante chiamato a lavorare a Scampia? Questo metodo, noto come “balletto dei supplenti”, talvolta dura fino a Natale con grave pregiudizio alla didattica. Si pensa che la scuola sia un ammortizzatore sociale o una fabbrica che deve dare lavoro a un milione di persone e non invece a educare gli studenti e aiutarli a sviluppare competenze”.

Stress in cattedra

Lo stress da cattedra è uno dei problemi della scuola di oggi. Un’indagine condotta su un campione di 1.541 insegnanti da Luisa Vianello, ricercatrice della Sapienza di Roma, e pubblicata lo scorso anno, mostra come il 58 per cento di chi insegna soffre di disturbi da stress. Che si fanno più gravi tra chi insegna da molti anni o ha classi con più di 25 allievi. Vale per tutte le scuole, da quella dell’infanzia alle superiori.

L’altro problema, forse più drammatico, è che gli insegnanti si sentono smarriti, isolati, sotto attacco, poco riconosciuti. La classifica quinquennale, che come tutti i sondaggi vale quel che vale ma è indicativa, pubblicata lo scorso dicembre del Global Teacher Status Index e che valuta la reputazione sociale degli insegnanti in 35 paesi, l’Italia è ultima in Europa, sopravanzata di poco anche dalla Turchia, e terzultima dopo Brasile e Israele.

“Il problema dello stress esiste – dice Giannelli, ma è dovuto anche al fatto che non c’è un’adeguata selezione all’ingresso. Gestire trenta bambini della scuola dell’infanzia non è facile. Non c’è alcuna valutazione attitudinale in ingresso, e quindi magari prendiamo persone che non sono portate e dopo tanti anni in cattedra vanno in stress. Da un lato, ci vorrebbe una verifica dei requisiti e durante il servizio servirebbe un accompagnamento, un’assistenza, un supporto anche psicologico come succede all’estero con queste professioni chiamate, non a caso, ‘professioni d’aiuto’, perché sono mestieri nei quali ci si fa carico di problemi degli altri, in questo caso la crescita di persone, che è molto diverso dal fare un lavoro d’ufficio, burocratico”.

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