UNA GUERRA MONDIALE D’AFRICA?

By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 3 Marzo 2013

Uno degli epicentri delle tensioni è il Mali, un paese della fascia subsahariana con un territorio grande quattro volte l’Italia e fra i più vasti del continente

Tre quarti dei conflitti che devastano il pianeta si svolgono, in questo 2013, in una dozzina di paesi d’Africa. Fra l’area che si affaccia sul Mediterraneo e la grande estensione desertica del Sahel interessi materiali e fondamentalismi religiosi incendiano Algeria, Egitto, Mali, Nigeria; ragioni politiche ed economiche motivano gli scontri Sudan-Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo-Ruanda, Kenya-Somalia; rivalità interne scuotono Repubblica Centroafricana, Zimbabwe, Guinea Bissau, Costa d’Avorio.
Allo stesso tempo, paradossalmente, l’Africa vede crescere la propria economia a ritmi equivalenti a quelli cinesi – ritenuti eccezionali – non soltanto in nazioni che, come il Ghana, il Sudafrica, la Tanzania e il Zambia, godono di un clima di relativa pace, ma anche in quelle che, dalla Nigeria alla Costa d’Avorio al Kenya, non sono altrettanto tranquille.
Uno degli epicentri delle tensioni è il Mali, un paese della fascia subsahariana, con un territorio (al nord in gran parte deserto) grande quattro volte l’Italia e fra i più vasti del continente. Nella seconda metà del 2012 una serie ripetuta di contrasti politici, di rivolte militari e colpi di stato ha favorito le milizie integraliste islamiche nell’occupazione al nord  di due terzi del paese, dove è stata imposta la stretta legge coranica secondo i principi dei salafiti, i più intransigenti fra i musulmani. Con una sorta di testa di ponte dalla quale contaminare un’area – quella appunto del Sahel – vasta quanto l’India, per favorire l’islamizzazione di inquiete comunità, per esempio, nei confinanti Niger, Costa d’Avorio, Senegal, Guinea e Burkina Faso, e per tenere in allarme Algeria e Mauritania. Anche perché i ribelli proteggono i percorsi del contrabbando, della droga, del commercio delle armi, e praticano l’arte del rapimento e del riscatto.
La situazione ha allarmato la Francia, che ha ancora interessi economici e culturali in ventisette nazioni, già appartenenti al suo impero coloniale, la cui prima o seconda lingua è il francese (parlato nel continente da centodieci milioni di persone). Parigi – dietro richiesta ufficiale del governo maliano – ha inviato truppe per aiutare l’esercito locale, in verità molto malmesso, a riconquistare le terre occupate dagli invasori. Anche altri paesi africani, il Ciad, la Mauritania, la Nigeria – nel timore  del contagio fondamentalista e dell’esplosione del terrorismo – hanno spedito soldati.
Sin dall’inizio si sapeva quanto l’impresa non fosse facile. I ribelli, in gran parte transfughi delle truppe di Gheddafi, sono addestrati al combattimento e ben armati, avendo saccheggiato gli arsenali libici prima di rifugiarsi nel deserto. Nei territori occupati hanno compiuto massacri e distruzioni – anche di tesori archeologici patrimonio dell’umanità, incompatibili a loro parere con l’islam puro e duro – e ora danno filo da torcere ai franco-maliani che, peraltro, li stanno lentamente ricacciando.
Una clamorosa appendice del conflitto è stata, a metà gennaio, la vicenda di In Amenas, il sito petrolifero algerino attaccato e occupato, per rappresaglia, da un commando di una trentina di guerriglieri che hanno tenuto in ostaggio centinaia di lavoratori locali e stranieri, uccidendo poi 23 di questi ultimi prima di essere sterminati. Provocando così, in pratica, l’ingresso dell’Algeria (che ha concesso il permesso di sorvolo verso il Mali agli aerei francesi) nel generale conflitto antiterroristico.
Ma la miccia rischia di alimentare altri focolai. Per esempio in Nigeria, dove il gruppo islamista Boko Haram vorrebbe applicare gli stessi principi dei salafiti in Mali, attuando una strategia del terrorismo della quale le principali vittime sono i cristiani. Sino a ora sono tremila i morti per attentati ai luoghi di culto cattolici o protestanti, che i fondamentalisti dichiarando di voler letteralmente cacciare dal nord del paese per istaurarvi la stretta legge coranica. Si intrecciano naturalmente con i pretesti della religione grandi interessi economici, considerando le ricchezze di idrocarburi che si celano nel sottosuolo del paese e che, purtroppo, alimentano corruzione e delinquenza.
Una situazione minacciosamente analoga si rileva nell’Africa nord orientale dove Sudan e Sud-Sudan (che ha conquistato di recente l’indipendenza dal primo) si contendono una zona di confine ricca di petrolio e di gas senza riuscire a trovare un accordo. Anche qui il Sudan si fa forte della solidarietà arabo-islamica per rivendicare diritti territoriali ed egemonie religiose contestate dal vicino meridionale – a grande maggioranza cristiano e animista – portando così a scontri di frontiera che aumentano di violenza col passare del tempo.
Se si può considerare in via di soluzione la crisi istituzionale che ha sconvolto per alcuni mesi la Repubblica Centroafri-cana, purtroppo lo stesso non può dirsi del clima che si respira in Egitto, un paese spaccato fra chi vuole imporre la legge coranica e i cittadini che la respingono. Ancora una volta sembra che l’ultima parola spetti  all’esercito, in grado di condizionare le scelte del governo, sì, democraticamente eletto ma che ha presto virato verso una gestione autoritaria del potere.
Un’ultima parola sul Congo, teatro di brutali interessi materiali. Non c’è pretesto religioso che tenga, ma soltanto il possesso e lo sfruttamento delle materie prime di cui è ricco il paese. Le grandi multinazionali dell’Occidente stanno ai ferri corti con Cina, India e Giappone. Per questo, e non per ragioni ideali, vengono scatenate le guerre. La guerra mondiale d’Africa?

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