“SONO MOLTO SERENO…”

intervista a ENRICO LETTA
By Gino Consorti
Pubblicato il 1 Aprile 2019

Enrico stai sereno, vai avanti…” Sono passati cinque anni da quella famigerata “rassicurazione” pronunciata dall’allora segretario del Partito Democratico Matteo Renzi, ospite nel salotto televisivo di Daria Bignardi, nei confronti dell’allora presidente del Consiglio Enrico Letta. Il calendario, tanto per essere precisi, segna 17 gennaio 2014. Trascorre poco più di un mese e il 22 febbraio 2014, tra lo stupore di tanti, Matteo Renzi giura nelle mani del capo dello Stato Giorgio Napolitano alla guida di un nuovo governo. Questo racconta la cronaca, una narrazione priva di omissioni o ricostruzioni fantasiose. Il passaggio della campanella tra Letta e Renzi, dunque, diede il la a una lunga e tormentata diatriba non ancora sopita, al di là delle dichiarazioni di circostanza e dei formalismi propri del mondo della politica. Per tanti fu un’oscura manovra politica, un vero e proprio golpe; per altri, invece, il Pd, nessuno escluso, decise semplicemente di cambiare cavallo… Su questo e altri argomenti, però, chiederemo lumi al nostro interlocutore.

Nel frattempo, torniamo all’uscita forzata da Palazzo Chigi, a mio avviso inaccettabile e irragionevole, dell’enfant prodige che a 25 anni era stato chiamato alla guida dei Giovani del Partito Popolare Europeo e a soli 32 anni nominato ministro per le Politiche Comunitarie, vero e proprio record nella storia della politica nazionale. Una volta fuori dai Palazzi della politica, però, ai sui occhi si apre un nuovo mondo. Il 9 giugno 2015, infatti, rinuncia al seggio in parlamento e al vitalizio, scegliendo di dedicarsi all’insegnamento universitario. Lo fa, però, di là dalle Alpi andando a dirigere dal 1° settembre dello stesso anno la Scuola di Affari Internazionali dell’università Sciences Po di Parigi, un’istituzione storica per la formazione della classe dirigente politica e amministrativa francese ed europea. Un incarico di assoluto prestigio che lo ripaga di tante amarezze e colpi bassi ricevuti, tanto che lui lo definisce “il periodo più bello della mia vita”. D’altra parte il legame con la Francia ha radici antiche, ha il sapore dell’infanzia avendo frequentato a Strasburgo la scuola dell’obbligo prima di tornare in Italia laureandosi in Diritto internazionale e conseguendo il dottorato in Diritto delle comunità europee. E sempre in Italia ha fondato due istituzioni no profit: la Scuola di Politiche e l’Associazione Italia-Asean. Inoltre è anche presidente dell’Istituto Jacques Delors.

Convinto europeista ma critico nei confronti dei governi rigoristi e di chi si oppone alla modifica del Trattato di Dublino sul tema migranti, l’ex presidente del Consiglio, dunque, è tornato a “vivere del suo lavoro”, senza ovviamente nulla togliere a chi si guadagna la pagnotta ricoprendo incarichi politici e istituzionali… Ecco, allora, una cattedra e tanti giovani – le potenziali classi dirigenti – nei quali strutturare una maggiore consapevolezza e profondità dei valori. Soprattutto in un tempo dove la cultura moderna ha lasciato l’uomo in balia di se stesso, privo della memoria e di un progetto. Cioè il presente considerato come valore assoluto dove l’individuo, disorientato dalla rincorsa al denaro e al profitto, si costituisce un principio di verità rimanendo, di fatto, senza riferimenti oggettivi.

Pochi mesi fa Enrico Letta ha mandato in libreria l’interessante volume dal titolo ho IMPARATO (il Mulino, pp.188, euro 15,00) ponendosi come obiettivo, decisamente ambizioso, un’elaborazione di idee e proposte concrete, il più possibile condivisa, per affrontare le sfide di oggi senza però negarne la complessità. Ma non è tutto. Quasi contestualmente alla pubblicazione del volume, dopo la scelta di non respirare più l’aria della politica parlamentare, a distanza di cinque anni ha deciso di riprendere la tessera del Pd. Un’incredibile coincidenza che avvenga con il declino del renzismo? Anche questa curiosità proveremo a soddisfarla con l’aiuto del professore.

L’inseguimento non è stato facile, soprattutto per i suoi tanti impegni italiani e francesi…, ma alla fine ci siamo riusciti grazie a una grande disponibilità e cortesia. D’altra parte le tante qualità del personaggio che abbiano di fronte sono più che note. Ora, dunque, può iniziare la “nostra lezione” con il professor Enrico Letta.

Presidente, nel suo libro sottolinea che “la convinzione più importante è che non c’è niente di più bello che imparare”. Lei cosa ha imparato dopo la breve esperienza a Palazzo Chigi?

Che, appunto, non c’è nulla di più bello di imparare e di mettersi in discussione. Sono processi molto comuni che capitano a tutti, dopo passaggi di vita che segnano una svolta o un cambiamento, quale che sia. Nel mio caso, al di là della cesura iniziale, sono stati anni carichi di esperienze, incontri e insegnamenti che non avevo preventivato, perlomeno nelle modalità e nell’intensità con cui sono arrivati. Ciascuno di noi, suppongo, conosce queste dinamiche, fa parte della vita, si cade e ci si rialza, ognuno come può. Ecco, molto tempo dopo quella vicenda, provando a rintracciare un filo conduttore e osservando questo lungo periodo dall’alto, mi sono scoperto a pensare che sì, davvero non poteva capitarmi nulla di meglio.

Gli insegnamenti più importanti sono arrivati dentro o fuori i Palazzi della politica?

Non amo la retorica dispregiativa nei confronti dei Palazzi, quasi fossero solo espressione di privilegio o conservazione. Palazzo significa anche istituzioni, luoghi della rappresentanza e della difesa dell’interesse generale. Uno spazio sacro della democrazia. Tutto dipende da come ci si sta, da come si “abitano” le istituzioni. Detto questo, tornando alla sua domanda e agli ultimi anni, essendomi io dimesso dal Parlamento e avendo rinunciato a ogni incarico pubblico, va da sé che gli insegnamenti più forti e inaspettati siano arrivati dal “mondo di fuori”, dagli studenti, dai ragazzi, dai tanti incontri che ho avuto la fortuna di fare.

Tra i libri scritti, ha detto che questo è quello che le piace di più? Perché?

Ho amato ciascuno dei libri che ho pubblicato. Scrivere è un esercizio di creatività, un’espressione di sé, a tratti faticosa, che evidentemente riflette, oltreché le convinzioni e le idee dell’autore, anche lo stato emotivo, la percezione di quello che ci accade intorno in quel determinato momento. Ecco, forse questo volume mi piace più degli altri proprio perché è il frutto di anni così densi di stimoli e lezioni di vita. Senza contare che è un libro molto più diretto. Per uno della mia formazione familiare, culturale e politica, intitolare un volume ho IMPARATO, alla prima persona singolare, con un “io” sottinteso lì in copertina, è stata certamente un’esperienza nuova. D’altro canto, credo che proprio questa prospettiva personale sia alla base del fatto che il libro stia andando così bene, in misura per me inaspettata. Voglio pensare che i lettori, perfino al di là delle idee e delle convinzioni che propongo, sulle quali possono essere più o meno d’accordo, abbiano percepito autenticità e per questo ne siano incuriositi.

Guardandosi indietro, qual è stato l’errore più grande commesso e quale, invece, la carognata ricevuta più difficile da mandare giù?

Ne ho commessi diversi e nel libro ne parlo. Credo che l’errore più grande sia stato di prospettiva. Troppo a lungo mi sono accontentato di una analisi della società frutto in larga misura del mainstream, del pensiero prevalente. Questo ha parzialmente condizionato la mia lettura della realtà, facendomi vedere con ritardo ciò che stava avvenendo. In altri termini, ho esercitato poco il “pensiero laterale” ed è stato uno sbaglio. Oggi mi impongo di non farlo più, mi applico a dossier che prima reputavo marginali, mi accorgo di aver bisogno del parere e del confronto con chi la pensa diversamente da me per arricchire il mio giudizio. È un cambiamento di approccio che mi torna utile in molte circostanze. Alle carognate preferisco non pensare. Io guardo avanti.

A suo avviso a cosa è dovuto il trionfo salviviano?

A un mix di fattori anche molto complessi che è impossibile riassumere qui. Di certo, Salvini non ci sarebbe stato senza la questione immigrazione. Come Orban, come Trump, come i sostenitori del Brexit nel Regno Unito ha utilizzato uno dei fenomeni più complessi della contemporaneità per lucrare sulle paure e sulla disperazione della gente. Continua a farlo da vicepresidente del Consiglio, sistematicamente deviando dal suo ruolo istituzionale con appelli diretti a una parte della popolazione che credo essere incattivita. Dunque, questo trionfo – per ora registrato soprattutto dai sondaggi, a dire il vero – non ci sarebbe se non ricorresse alla ricerca di un avversario da distruggere, se non agitasse ogni giorno il feticcio di un nemico del popolo – l’immigrato, l’intellettuale, il pacifista, il buonista – da dare in pasto all’opinione pubblica per nascondere la sostanziale modestia della sua proposta politica.

È giusto legarlo alla campagna di scimmiottamento messa in atto dai radical chic nei confronti dei cosiddetti populisti oppure, invece, c’è qualcosa di più profondo e meno banale? 

È giusto – nel senso che senza dubbio è in corso una campagna di scimmiottamento e delegittimazione verso alcune categorie di cittadini e opinionisti – ma è anche riduttivo, come ho cercato di argomentare prima. Quella dei radical chic è diventata una rappresentazione macchiettistica a uso e consumo soprattutto dei social. Si confondono alcune degenerazioni dialettiche del politicamente corretto con l’affermazione sincera e sacrosanta di valori non negoziabili. Come se, ad esempio, rivendicare il primato della persona e dell’umanità sulla vicenda dei migranti significasse essere elitari o addirittura nemici degli italiani. È una semplificazione gravissima che finora ha avuto presa, ma che sono convinto sia destinata a essere smascherata.

Da cosa deve ripartire la sinistra italiana per recuperare credibilità e voti nel paese?

Dalla giustizia sociale intesa in ogni sua declinazione. Non abbiamo visto – o abbiamo capito troppo tardi – che le disuguaglianze aumentavano: tra classi sociali, tra Nord e Sud del Paese, tra città e periferie, tra generazioni. L’equazione “più opportunità, meno diritti” è fallita e gli elettori lo hanno espresso nel modo più chiaro possibile attraverso il voto. Quindi, al di là della retorica sul tornare nei luoghi del disagio, occorre dare segnali subito e anche accettare la sfida di costruire proposte che non hanno effetti immediati, ma che sono l’unica via per ridurre le disuguaglianze. Penso in primo luogo all’istruzione: oggi, molto più che in passato, chi nasce in condizioni disagiate ha la percezione di essere condannato a rimanervi. È inammissibile, il nostro fallimento più grave. Per rimediarvi dobbiamo rimettere l’educazione al centro, elevare l’obbligo scolastico a 18 anni, tornare a nobilitare il ruolo insostituibile degli insegnanti.

Come giudica l’elezione di Zingaretti alla guida del Pd?

Ho votato alle primarie del 3 marzo e ho scelto lui. Credo che quella giornata sia stata una straordinaria dimostrazione di vitalità e partecipazione che giudico come un segnale di speranza e anche come l’occasione per l’inizio di una rimonta. Le parole d’ordine scelte da Zingaretti – unità e cambiamento – sono quelle giuste per recuperare una connessione sentimentale con il Paese. Sap-piamo tutti – sono convinto lo sappia anche lui – che non si tratta di una cambiale in bianco. Per questo la discontinuità rispetto agli errori del passato, a mio avviso, deve essere netta.

Nel libro c’è un capitolo intitolato Vaffa, ruspa e rottamazione… Ai renziani non è piaciuto affatto…

Mi spiace non sia piaciuto, ma nel libro io ne faccio un discorso di metodo generale. Le tre formule – espresse, beninteso, da tre leader politici diversissimi per storia e cultura politica come Beppe Grillo, Matteo Salvini e Matteo Renzi – hanno un filo conduttore, il ricorso al discredito dell’avversario, il dileggio praticato in luogo della battaglia delle idee. Con queste premesse l’approdo a una radicalizzazione del dibattito pubblico è inevitabile.

A proposito, il suo compagno di partito ed ex inquilino di Palazzo Chigi ha detto che ha “molto rispetto per chi vive un momento di rancore del passato…” Anche lui, però, non scherza visto che a distanza di anni seguita a parlare di “fuoco amico” dopo la sonora sconfitta sul referendum Costituzionale e le successive dimissioni…

Il rancore non è una categoria politica, ma uno stato dell’animo. In questo caso evidentemente presunto. Gli episodi cui fa riferimento sono avvenuti ormai anni fa e si sono consumati sotto gli occhi di tutti. Gli italiani si saranno fatti un’opinione. A Renzi consiglio di guardare avanti. Si sta molto meglio, dopo.

È proprio sicuro che il Movimento 5 stelle sia in liquefazione…?

Non lo sono. Ma credo che in questi mesi di governo molte scelte abbiamo certificato lo snaturamento del Dna politico del Movimento. Penso al voto sull’immunità a Salvini in merito al caso della nave Diciotti, alla politica sull’immigrazione, ai condoni. Detto questo, io non sono tra quelli che giudica i 5 Stelle come il male assoluto. Non l’ho mai fatto, neanche quando il mio governo era sotto attacco e la mia persona oggetto di accuse fuori dal mondo. Credo che il Movimento abbia costituito in questi anni uno strumento di istituzionalizzazione del dissenso e della rabbia sociale. Altrove – penso ai Gilet Gialli in Francia – questo tipo di rancore ha avuto o può avere esiti violenti ed eversivi. Da noi ciò non è avvenuto e questo è un bene. Resta, per quanto mi riguarda, una proposta politica irricevibile specie per ciò che attiene al loro approdo dichiarato, vale a dire al mantra della democrazia diretta.

A suo avviso cosa hanno in comune Renzi, Salvini e Grillo?

Personalmente molto poco, ripeto. Le loro proposte politiche, con varianti diverse, oltre alla questione del metodo cui facevo riferimento, mi pare siano state accumunate da tre fattori. In primo luogo, l’appello diretto al popolo, con il mito della disintermediazione e la delegittimazione dei corpi sociali e in particolare del sindacato; secondo, la presunzione che il proprio avvento segni l’anno zero della politica; infine, l’identificazione tra il leader e il partito.

Lei recentemente ha messo in guardia il neo segretario del Pd Zingaretti da un eventuale “avvicinamento” ai 5 stelle in caso di crisi di governo. Perché?

Ho detto di non cedere a formule politiciste. Zingaretti del resto più volte ha specificato che il punto non sono accordi tra classi dirigenti, ma l’urgenza di tornare a parlare all’elettorato di centrosinistra che in questi anni si è sentito tradito dalle scelte del PD e ha votato altrove, a milioni proprio il M5S. Troppo spesso verso questi elettori nel corso dell’anno si sono usate parole sbagliate, senza cercare di capire il senso di quelle scelte, ma denigrandole o bollandole come figlie dell’invidia sociale.

La politica, però, è anche concretezza e buon senso. Se si dovesse tornare alle urne il Pd, qualora cullasse sogni di governo, dovrebbe pensare a un eventuale “apparentamento”. In quel caso con chi?

Ripeto: usciamo dalle formule del passato. L’unico apparentamento di cui parlare è quello con la gente, con i cittadini, a maggior ragione con quelli che faticano di più e cercano risposte e speranze. Penso alla piazza di Milano che è stata un inno ai diritti contro ogni disumanizzazione, a quella del sindacato unito che chiede rispetto, a quel milione e mezzo di persone che hanno votato alle primarie. È uno spazio politico e civico largo e, a mio avviso, ancora molto forte nel Paese.

Lei lascerebbe aperta la porta del partito ai vari D’Alema, Bersani, Grasso, Speranza eccetera oppure la sbarrerebbe come hanno già annunciato i renziani?

Stessa risposta: impostando il dibattito in questi termini si rischia di reiterare gli stessi errori. Tutto deve fare il Pd tranne parlare di porte sbattute in faccia. Il centrosinistra deve essere aperto e inclusivo verso gli elettori, il resto interessa solo agli addetti ai lavori.

Qual è la strada da seguire per far sì che il PD torni a essere un partito “simpatico” e soprattutto vicino alle fasce più deboli e non, invece, a chi paga 30 mila euro per una cena elettorale…?

Dimostrare di aver imparato la lezione, comprendere che significa davvero aver paura di non farcela, ascoltare la frustrazione di chi fatica e si impegna ma ha l’impressione di non avere mai una chance per esprimere il meglio di sé. Uscire dalle polemiche autoreferenziali per leggere meglio la società e individuarne le priorità. Essere vicini alle persone, caldi, ma senza infingimenti o ipocrisie. Se bluffi le persone se ne accorgono.

Dopo 5 anni trascorsi fuori dalla politica parlamentare ha deciso di riprendere la tessera del Pd. È solo un caso che coincida con l’uscita di scena di Renzi?

L’ho spiegato: credo che nel centrosinistra e nel Paese stia tornando una straordinaria voglia di impegno e partecipazione. Allo spaesamento che in molti abbiamo avvertito in questi anni, e di cui parlo nel libro, si stanno sostituendo la determinazione e la voglia di impegnarsi per l’Italia. Io ho ripreso la tessera per questo. Tutto il resto è secondario.

Qual è la sua idea di Italia?

Un’Italia mondiale, conscia delle sue straordinarie potenzialità, ma anche dei propri limiti, che cerca di correggere. L’Italia con lo spirito degli anni ’60 che accetta il sacrificio ma in nome di un futuro di benessere e crescita. L’Italia che non lascia nessuno indietro. Un’Italia più umana e solidale di quella che sembra oggi maggioritaria.

Come combattere la disoccupazione giovanile?

Attraverso l’educazione, prima di tutto. La scuola e l’università devono tornare il punto di aggregazione della società. E poi con l’innovazione. Incredibile come sia ancora faticoso, in molte aree del Paese, incrociare domanda e offerta di lavoro.

Le sfide dell’immigrazione e del declino economico e culturale come si vincono concretamente?

Si tratta di sfide molto diverse, i piani non devono essere sovrapposti. A mio avviso, comunque, la parola del futuro sarà sostenibilità. Quella ambientale da un lato è strettamente connessa all’afflato di giustizia sociale che ho descritto prima, visto che, come più volte ci ha ricordato Papa Francesco, sono i più vulnerabili a pagare il prezzo dei cambiamenti climatici; dall’altro lato, può essere davvero la via maestra per un modello di benessere più equo e competitivo. E poi, ovviamente, la sostenibilità sociale: non possiamo lasciare che le nostre periferie siano ancora terreno di scontro degli ultimi contro i penultimi.

Che ne pensa del Reddito di cittadinanza?

Che è mal congegnato e incerto nelle modalità di finanziamento. Tuttavia, sono d’accordo sull’idea di assicurare un supporto ai più poveri. Col mio governo avviammo un progetto in merito col ministro Giovannini, ma era solo un inizio.

Cosa risponde a chi l’accusa di essere un euroburocrate?

Che sono un europeista. E in quanto tale voglio un’Europa diversa, più vicina ai cittadini e più unita.

Dal suo osservatorio privilegiato può dirci cosa non piace alla Francia dell’Italia?

Non amo gli stereotipi e non voglio indulgervi. La continuità fisica tra i due paesi e secoli di contaminazioni rende questo rapporto assai complesso, nel bene e nel male. Ma è un rapporto cruciale, da cui nessuno può ragionevolmente pretendere di prescindere.

È pur vero, però, che grandi lezioni i francesi non possono darcele… Soprattutto in materia di economia e conti…

Su alcuni dossier, penso in particolare alla politica industriale, è giusto e doveroso avere un rapporto dialettico anche duro. Resta il fatto che la Francia è stato e deve rimanere un nostro alleato di riferimento in Europa. Faccio un nome su tutti: senza la sponda francese (e spagnola) alla guida della Banca Centrale Europea non avremmo avuto in questi anni Mario Draghi. Pensiamo a quanto diversa, e più svantaggiosa per noi, sarebbe stata la risposta alla crisi con qualcun altro in quel ruolo centrale per la politica economica europea.

Qual è la colpa più grave attribuibile all’Unione Europea?

L’Unione Europea siamo noi, sono i popoli, sono i governi. La colpa è di non averlo spiegato abbastanza. Di non essere stati abbastanza “unione”, di non aver contrastato le pulsioni egoistiche degli Stati con una spinta forte verso una sempre maggiore integrazione. Il risultato è questo corto circuito, per cui le opinioni pubbliche, legittimamente spaventate dalle tante sfide dell’epoca complessa in cui viviamo, incolpano Bruxelles quando invece i freni alle risposte arrivano in larga parte dai governi.

E il valore irrinunciabile messo in campo?

I diritti della persona. L’Europa è libertà, protezione, solidarietà, pace, sostenibilità ambientale.

Che bilancio viene fuori dai suoi 4 anni alla direzione della Scuola di affari internazionali dell’Istituto di studi politici di Parigi?

Uno straordinario bilancio di arricchimento umano. Ho avuto la fortuna e il privilegio di vivere questi anni a contatto con i giovani, ragazzi di tutto il mondo che ogni giorno mi danno stimoli e sollecitazioni. Se dovessi scegliere una parola direi curiosità: la bellezza dell’apprendimento, la forza dell’immaginazione.

Quale messaggio indirizzare ai giovani per non smarrire la propria identità e tenere sempre in mente che ognuno rappresenta un’eccezione esclusiva? Cioè evitare di trascorrere una vita in fotocopia…

Li invito a interrogarsi spesso su queste domande: “Quali sono i limiti dell’ambizione? A cosa siamo disposti a rinunciare? Quanto costa la libertà?”. Ne ho molte volte discusso con i ragazzi e le ragazze della Scuola di Politiche, l’esperienza formativa che proprio in questi anni ho fondato in Italia per dare a cento giovani all’anno, gratuitamente, la possibilità di formarsi e conoscere meglio le istituzioni europee e internazionali. Il messaggio più importante da indirizzargli è esattamente questa irrinunciabile, preziosa, centralità della persona e della sua dignità. Mi viene in mente una bellissima citazione di don Primo Mazzolari: “La disgrazia della lotta politica in Italia è legata alla dimenticanza dell’uomo, per cui abbiamo cittadini che sono quel che volete, vale a dire con denominazioni politiche svariatissime, ma con nessuna sostanza umana. Prima di essere ammessi a un partito ci vorrebbe la promozione a uomo”. E per la promozione a essere umano ci vogliono tanto coraggio e tanta dignità.

“Enrico stai sereno…”. Siccome l’Italia è fin troppo piena di mezze verità e verità sospese…, ci racconta presidente come andarono effettivamente le cose in una vicenda che una larga fetta del popolo italiano non ha mai compreso…?

Guardiamo avanti. Non è vero che gli italiani non abbiano compreso…

Oggi Enrico Letta è sereno?

Sereno a livello personale, molto. E a livello politico per nulla rassegnato all’idea che non si possa tornare a restituire speranza e occasioni a un Paese che ha ancora tantissime potenzialità da esprimere.

 

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