RIFUGIATI IN FAMIGLIA

CASE APERTE AGLI IMMIGRATI
By Marta Rossi
Pubblicato il 1 Ottobre 2015

Accogliere un profugo in casa propria: da maggio, cinque famiglie hanno aperto le loro case agli immigrati, per il progetto Rifugiati in famiglia, realizzato da Ciac onlus – centro immigrazione asilo e cooperazione onlus e Consorzio Communitas onlus. I comuni capofila sono quelli di Fidenza e Parma e i primi rifugiati da ospitare verranno individuati tra il centinaio di titolari di protezione inseriti nei progetti Sprar (gestiti da Ciac onlus) in tutto il territorio della provincia di Parma e alle famiglie residenti a Parma o nel parmense che vogliano mettere a disposizione la propria casa. Si tratta di giovani dai 20 ai 30 anni provenienti dall’Africa subsahariana, dall’Afghanistan, dalla zona curda e dall’Iraq. Il progetto prevede un’accoglienza massima di nove mesi, un rimborso alle famiglie di 300 euro, momenti di confronto e l’assistenza sia per il rifugiato, con la possibilità in caso di necessità di rientrare nel progetto Sprar, che per le famiglie con un supporto psicologico per gestire le dinamiche.

Il numero di famiglie coinvolte in questo progetto dovrebbe salire a dieci entro la fine dell’anno, cifra confermata anche per il 2016. Si tratta di una seconda accoglienza che permette, a chi viene ospitato, di inserirsi nella nostra società supportato dall’affetto di una famiglia, incoraggiato dall’esempio di persone che, seppur impegnate tra lavori – spesso precari – orari impossibili, figli da accompagnare e conti da far quadrare, non esitano ad aprire le porte di casa loro per dare una seconda possibilità di rinascita. Il progetto, che per ora ha dimensioni numeriche piccole ma che ha un significato senza eguali in termini di solidarietà e accoglienza, segue il solco tracciato dal 2008 dal Comune di Torino con il progetto Rifugio diffuso: in sei anni, nonostante la crisi economica e l’imbarbarimento nei confronti degli immigrati, sono state 143 le persone coinvolte e l’80% dei partecipanti ha lasciato la famiglia con un lavoro.

“Le famiglie coinvolte portano le loro motivazioni, la loro storia, il loro tessuto di relazioni sociali, le loro amicizie e i loro rapporti di vicinato. Portano la loro curiosità, la loro voglia di fare la differenza, di manifestare con semplicità la loro contrarietà al dilagare del pensiero razzista. Forse si fanno avanti oggi più di ieri non solo perché vengono interpellate direttamente, ma anche perché sentono che non si può più rimanere indifferenti, silenti, immobili. Intuiscono che testimoniare con la propria esperienza che la porta di casa può rimanere aperta, senza paura e diffidenza, sarà di beneficio non solo per il rifugiato accolto ma anche per la comunità nel suo insieme, che ne uscirà più coesa e solidale”, spiegano da Ciac onlus. “È  importante per noi ribadire che il progetto Rifugiati in famiglia coinvolge persone che hanno già completato la procedura di riconoscimento della protezione, che hanno una prospettiva di vita in Italia, che si stanno radicando anche attraverso l’apprendimento della lingua italiana e la ricerca di un percorso di autonomia lavorativa. È in questa fase infatti che – dopo aver ricevuto il supporto, la tutela e la garanzia che sono loro istituzionalmente dovuti, nel rispetto dei loro diritti e attraverso le figure competenti che il territorio può e deve mettere a disposizione – l’esperienza in famiglia può diventare un reale trampolino per il percorso di integrazione nella società. Nella fase di richiesta asilo le esigenze sono diverse e il sincero contributo della famiglia rischierebbe di essere disperso, quando non dissipato (Che fare se la persona accolta riceve un diniego? Come comportarsi se emergono serie vulnerabilità? A chi rivolgersi per supportare il richiedente nell’iter della sua procedura di asilo? In che modo comunicare senza nessuna lingua condivisa?)”.

Il progetto – coordinato da Chiara Marchetti – ha richiesto oltre un anno di lavoro e ha dovuto vincere non poche diffidenze. Ma molti cittadini, famiglie, single, giovani in cohousing, si sono messi a disposizione. Per scegliere le famiglie sono stati fatti colloqui e incontri, valutazioni di diverso genere per capire la compatibilità: l’ospitalità necessita di un rispetto reciproco per gli orari, le regole, le abitudini, a volte anche le religioni diverse. Ma mediare su tutto questo è necessario per consegnare la persona ospitata all’indipendenza e a una vita nuova.

Sulla stessa linea è anche il progetto Rifugiato a casa mia, promosso dalla Caritas italiana che nel 2014 ha coinvolto nove diocesi (Milano, Volterra, Savona, Aversa, Cagliari, Biella, Faenza, Teggiano Policastro e Genova) e che, come ha spiegato Oliviero Forti, responsabile immigrazione Caritas, verrà rilanciato: “L’intento è quello di rispondere il più efficacemente possibile a numeri che sono sotto gli occhi di tutti e crescenti: fino a oggi nel 2015 sono 24 mila le persone arrivate sulle nostre coste, nel 2014 erano 20 mila e c’è già un chiaro aumento. Attualmente in accoglienza ci sono poco più di 80 mila persone e quindi adesso l’esigenza è da un lato provare a liberare i posti cercando di accelerare le procedure delle richieste d’asilo, dall’altro quella di individuarne di nuovi posti”.

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