QUELLO NON È UN SALTO NEL NULLA
Ho visto, in tv, una scena incredibile. Un uomo si lanciava con la moto dalla cima di un monte. Prima prendeva la rincorsa sui prati, poi precipitava a valle, mentre tre paracaduti si aprivano, in successione, sorreggendolo. Però che batticuore, pensavo. Premere l’acceleratore e lanciarsi, a tutta velocità, sulla pista erbosa, sapendo che, oltre il crinale, c’è l’abisso…
La scena mi ha colpito. Probabilmente ha centrato una mia angoscia profonda. Lo confesso. Alla mia età, mi capita, ogni tanto, di vedermi in cima ad una rupe, avvolto nel buio, spinto a precipitare nel baratro da una forza irresistibile. Che, poi, altro non è che l’inesorabile avanzare degli anni. Ma perché provo tale angoscia se sono certo che, oltre questa vita, ne esiste un’altra, superiore e senza fine. Forse, per paura dell’ignoto, visto che conosco solo questo mondo. Credo, tuttavia, che il mio timore sia alimentato proprio dall’incognita del cambiamento, dalla rottura di un equilibrio.
Freud afferma che l’angoscia della morte non è altro che la riproduzione automatica dell’angoscia della nascita, quando, dal nido rassicurante dell’utero materno, qualcosa ci spinge fuori, verso lo scenario terreno. Se è così, allora, l’angoscia da annullamento è radicata in noi. Del resto, anche l’uomo più saggio che sia mai esistito, di fronte alla morte, ebbe a dire: “Ora l’anima mia è turbata Padre, salvami da quest’ora”. Ma, questo turbamento, da ostacolo, può trasformarsi in alleato. Heidegger sosteneva che la nostra vita mentale si costruisce come reazione al timore della morte. In quanto, solo un’angoscia profonda come questa riesce a generare un’insaziabile voglia di vivere e di fare. Tanto che alcuni sostengono che, senza l’angoscia della morte, non esiterebbe la civiltà.
Ho incontrato un giorno, per strada, un uomo rapidamente invecchiato, un personaggio del piccolo universo cittadino. Quando mi vide, si avvicinò d’impulso, quasi vedesse in me un’ancora di salvezza: “Ho l’angoscia di morire, mi disse, vorrei pregare ma non ci riesco. Non l’ho mai fatto”. “Mettiti di fronte a lui con la tua angoscia, gli risposi. è una preghiera irresistibile per Dio, perché l’ha provata quand’era sulla terra”. Quell’uomo, ai miei occhi parve un eroe. Ammettendo di aver paura della morte, aveva infranto un tabù, una barriera di ipocrisia sociale.
Nella nostra cultura, infatti, se parli di quella cosa, provochi subito uno sguardo di compatimento. Sembra che non sei capace di prendere la vita con leggerezza, sorridendole, magari sotto sforzo. Eppure, la nostra società ha un gran bisogno di ammettere questa paura. “Un uomo che non si ponga il problema della morte – ammoniva Gustav Jung – e non ne avverta il dramma, ha urgente bisogno di essere curato”. Perché, il problema della morte non è estraneo alla ricerca di senso esistenziale. E negare ciò che esiste è dannoso alla salute mentale, ci condanna a reazioni nevrotiche, a continue dinamiche di fuga: vita convulsa, rumori assordanti, rituali di massa Mi sono sempre posto il problema di come interagire con chi è prossimo a lasciare questo mondo. Infatti, fra noi e loro, in quei momenti, si crea una voragine. Forse, possiamo comunicare con chi se ne va solo con la presenza affettuosa ed il contatto fisico. Alla morte di mia madre, giunsi che era in agonia. Quando presi le sue mani fra le mie, lei riaprì gli occhi per l’ultimo saluto. Mio padre, invece, la sera prima del grande passaggio, era già distante con lo sguardo. Per cui, gli parlavo a vuoto. Si destò mentalmente solo quando un parente si rivolse a lui nel dialetto natio. E nel momento in cui, mia figlia, sedendosi sorridente al suo fianco, gli mise in bocca dei cucchiai di gelato. Mia madre e mio padre, però, mi hanno lasciato un messaggio. Entrambi si sono spenti col sorriso, proprio di chi vede qualcosa di meraviglioso. Ho compreso, allora, chiaramente, che quello non è un salto nel nulla. Luciano Verdone