QUEL CAPPUCCIO DELLA VERGOGNA…

L’intervista televisiva al figlio undicenne di Luigi Preiti, l’uomo che ha ferito gravemente, a colpi di pistola, i due carabinieri che stavano prestando servizio dinanzi a Palazzo Chigi, ha sollevato proteste nel mondo giornalistico e nella società civile e ha riproposto un tema importante e scottante: i giornalisti conoscono le regole deontologiche che si sono date nel corso degli anni e che dovrebbero servire a tutelare la dignità delle persone, soprattutto di quelle deboli, come i minori? Regole che dovrebbero servire, anche, a mantenere alta la qualità dell’informazione, che, troppo spesso, per colpa prevalentemente della televisione, finisce per confondere l’informazione con lo spettacolo. Sarebbe troppo facile raccogliere il consenso di chi sta leggendo se rispondessimo: “no, i giornalisti non conoscono le regole deontologiche”. In realtà la risposta è molto più complessa e, per molti versi, più inquietante. Vediamo perché.

Il mondo dell’informazione oggi sta subendo un processo di ristrutturazione che, come prima grave conseguenza, sta producendo un esercito di giornalisti precari soprattutto in quelle regioni, come l’Abruzzo, che non hanno un’editoria autoctona in grado di mantenere a livelli accettabili il mercato del lavoro. Ormai le aziende editoriali non sostituiscono i giornalisti che vanno in pensione o che sono interessati, loro malgrado, ai processi di sfoltimento delle redazioni. Ricorrono, gli editori, ai collaboratori o ai freelance, pagati pochi euro a pezzo o a servizio, per contenere i costi del lavoro e aumentare i loro margini di profitto, anche quando non si registrano crisi di bilancio dovuti a cali di vendite-ascolti o di pubblicità. Detto in sintesi: un tale processo oltre a far scadere la qualità dell’informazione offerta ai cittadini, sta scatenando una competizione tra poveri nella rincorsa –  fatta di scoop a tutti i costi – al contratto, alla stabilizzazione e a una prospettiva occupazionale degna di questo nome. A scapito delle regole deontologiche dettate a tutela della dignità delle persone, ma soprattutto di quei soggetti che hanno poca o nulla capacità di difesa.

Dunque, il problema non sta solo nel fatto che i giornalisti non conoscono le regole che loro stessi si sono dati, sta anche (aspetto più grave) nella cosciente violazione di quelle regole in nome dell’audience con lo scoop o la spettacolarizzazione a ogni costo degli avvenimenti oggetto di narrazione, sotto gli incoraggianti ammiccamenti degli editori. Che altra lettura dare altrimenti al fatto che al giovane undicenne sia stato fatto indossare un cappuccio per renderlo irriconoscibile, se non quella che chi lo ha intervistato sapeva perfettamente che l’anonimato per i minori è la tutela fondamentale per assicurare loro protezione? Un cappuccio di ipocrita irresponsabilità (per non dire altro) che se anche non ci fosse stato non avrebbe prodotto meno danno di quello causato al minore e alla reputazione (già abbastanza infima) dei giornalisti. Sostenere, dunque, che i giornalisti non conoscono la deontologia professionale è semplicistico e non descrive tutta la verità: il vero problema è la precarizzazione della professione giornalistica che sta assestando colpi violenti alla qualità dell’informazione e dunque al quell’universale principio che descrive un cittadino consapevole se correttamente e compiutamente informato.

Questo è un processo che deve essere arrestato per il bene della comunità civile: il problema non è solo dei giornalisti ma di tutti.

L'ECO di San Gabriele
Panoramica privacy

Questo sito utilizza cookies per migliorare l'esperienza di navigazione.

I cookies sono piccoli files di testo salvati nel tuo browser per facilitare alcune operazioni. Grazie ai cookies, se torni a visitare il sito potrai essere riconosciuto non dovendo dare nuovamente il consenso al trattamento dei dati personali e saranno ricordale le preferenze già espresse.

Per gli sviluppatori, i cookies indicano le pagine più apprezzate dai visitatori al fine di un ulteriore sviluppo del sito.