È trascorso un anno da quando, materializzandosi nel giugno 2014 quasi all’improvviso, le bande dell’Is hanno iniziato a espandersi in Irak per poi allargarsi alla Siria. Oggi controllano metà dei due paesi e alcune città importanti mentre dall’altra parte una composita coalizione internazionale non riesce ancora a trovare la strategia giusta per contenere il fanatismo
Travestito da lotta religiosa, il terrorismo islamista dilaga e – oltre la Siria e l’Irak dove si combatte senza risparmio di mezzi una sanguinosa guerra – coinvolge con le sue propaggini la Libia e lo Yemen, trova imitatori e seguaci in Nigeria e Somalia, tenta la penetrazione in Congo e in Mali, minaccia l’Egitto e il Libano.
Allo stato dei fatti, l’offensiva del cosiddetto califfato pare vincente, sia per la debolezza degli avversari (in questo caso i regimi siriano e irakeno), sia per la timidezza della reazione internazionale. È trascorso un anno da quando, materializzandosi nel giugno 2014 quasi all’improvviso, le bande dell’Is (cioè “stato islamico”) hanno iniziato a espandersi in Irak per poi allargarsi alla Siria. Oggi controllano metà dei due paesi e alcune città importanti mentre dall’altra parte una composita coalizione internazionale (nella quale è spesso difficile distinguere alleati o nemici) non riesce ancora a trovare la strategia giusta per contenere il fanatismo di combattenti che sembrano molto motivati e disposti al sacrificio della vita. Come provano i numerosi uomini bomba che si fanno esplodere sia allo scopo di terrorizzare l’avversario (poco importa loro se ci vanno di mezzo civili incolpevoli), sia per favorire operazioni militari di conquista.
Questo è il quadro attuale che probabilmente non cambierà a breve termine. Lo stesso presidente americano Barack Obama ha ammesso che saranno necessari almeno tre anni (e c’è chi lo considera ottimista) per ridurre alla ragione i tagliagole islamisti. Ci si commuove, giustamente, per i guasti che essi fanno subire al patrimonio culturale dell’umanità, con la distruzione di preziosi reperti archeologici, e ci si indigna per la ferocia dei comportamenti nei confronti di chiunque sia considerato nemico di una fede che si basa sul richiamo all’odio. Ma a questa barbarie va aggiunto un altro, altissimo prezzo che dovranno pagare le future generazioni islamiche in termini di mancato sviluppo culturale, economico e civile.
Forse non si riflette abbastanza sul fatto che quattro anni di violenze – dall’inizio delle “primavere arabe” all’attuale esercito di Allah – hanno depauperato la coscienza civile dell’islam, con al suo interno duraturi strascichi di risentimenti incancreniti e volontà di vendette che non sarà facile assorbire. Per limitarci all’inizio dell’offensiva Is, in un anno si è assistito a esecuzioni sommarie, spesso efferate (oltre 2600, è stato calcolato), si sono perpetrati furti ed espropriazioni in quantità inimmaginabili, si sono esercitate violenze contro i singoli, in particolare nei confronti delle donne con stupri, conversioni e matrimoni forzati, si sono moltiplicate stragi (bambini compresi) di interi gruppi etnici o religiosi considerati eretici, si sono perseguitate comunità cristiane o non islamiche sino ad allora pacificamente integrate. A fatica il mondo musulmano riemergerà da questo bagno di crudeltà e di sangue.
Senza contare gli effetti puramente materiali delle vicende belliche. Occorreranno anni, forse decenni, per restituire un assetto vivibile a città e paesi sui quali sono passati i cavalieri dell’Apocalisse. Le immagini che giungono da luoghi una volta famosi (basti pensare ad Aleppo, alle macerie che vi si accumulano) parlano con eloquenza della follia che sta devastando il Medioriente. E sarà altrettanto faticoso ricostruire il tessuto economico di aree dalle quali sono state spazzate via attività industriali, commerciali e artigianali una volta fiorenti, insieme con strutture che davano lavoro a decine e centinaia di migliaia di persone.
Nessuno, per ora, si azzarda a redigere un bilancio del danno finanziario (si ipotizzano miliardi di dollari) che le vicende belliche stanno infliggendo a Siria e Irak, con estensione ai paesi vicini. Così come non è agevole quantificare il saldo negativo dell’agricoltura: una volta la Siria poteva vantarsi di essere uno dei granai del Medioriente, mentre oggi non soltanto si sono drasticamente ridotti i raccolti ma anche la pastorizia e le attività di allevamento (considerando la pratica brutale delle requisizioni per necessità belliche) stanno subendo duri colpi. E a ciò si aggiungano le esazioni, i sequestri, i taglieggiamenti che vengono imposti ai civili, in particolare dalle dilaganti strutture del califfato.
E infine i costi umani. Città desertificate, popolazioni spinte alla fuga dal timore dei bombardamenti, esodi verso zone più sicure, ricerca di ipotetiche protezioni internazionali: si moltiplicano le tendopoli, i campi si contano ormai a decine e a centinaia di migliaia i rifugiati, dispersi oltre frontiera e in situazioni che si fanno sempre più precarie anche dal punto di vista sanitario, alimentando il flusso di migranti che si muovono in direzione dell’Europa attraverso il Mediterraneo. Il deficit culturale provocato dal conflitto che oppone le due confessioni maggioritarie dell’islam, sunniti e sciiti, si tradurrà in una caduta del livello di istruzione per molti bambini, giovani e adolescenti islamici, già oggi non in grado di frequentare la scuola, inconsapevoli vittime del fanatismo e del terrorismo che muove ambizioni di potere, spacciate con motivazioni religiose. Uno dei capi del califfato ha detto che “l’islam è guerra”: un appello che purtroppo sta sopraffacendo per il momento le molte voci di condanna dell’uso della violenza provenienti dal mondo musulmano. Anche per esse la speranza è che “le porte dell’inferno non prevarranno”.