QUANDO IL POPOLO RISPONDE IN NEGATIVO

 

Il 2016 sarà ricordato come l’anno dei referendum sbagliati: in tre casi su quattro con un risultato diverso da quanto i promotori si erano ripromessi. Tre di essi si sono svolti in Europa (Gran Bretagna, Ungheria e Svizzera), uno in America latina (Colombia).

Pesanti le conseguenze del cosiddetto Brexit: il primo ministro inglese David Cameron – convinto di un esito positivo – aveva chiesto ai suoi concittadini se volevano restare o no nell’Unione Europea, e la maggioranza gli ha risposto negativamente. Così Cameron si è dimesso ed è uscito dalla vita politica, ed è cambiata la mentalità nel governo; mentre all’esterno si registra un obiettivo indebolimento dell’Unione sulla scena mondiale. Il risultato implica poi per l’economia britannica la perdita di posizioni di privilegio e di prestigio, come quella occupata sino a ieri dalla Borsa di Londra, e per l’Europa la necessità di ripensare al proprio ruolo internazionale.

Nel caso dell’Ungheria, dove il governo di Viktor Orban aveva bisogno di un forte sostegno per opporsi alle decisioni prese dalla Ue sulla ricollocazione dei migranti, suona come uno schiaffo il mancato raggiungimento del 50 per cento. È vero che, fra quanti hanno risposto, 95 su 100 si sono pronunciati a favore del rifiuto di ospitare una quota prefissata di profughi, ma è altrettanto evidente la riserva di oltre la metà della popolazione su un provvedimento di cui è palese la carica di disumanità.

Il solo referendum che si sia concluso in modo, se così si può dire, positivo è quello indetto nel Canton Ticino sotto lo slogan Prima i nostri, per dare la precedenza ai cittadini svizzeri rispetto agli stranieri (leggi: italiani) nell’assegnazione dei posti lavoro. Non era necessario raggiungere il quorum: la partecipazione si è fermata al 45 per cento, di cui il 58 ha votato sì e il 38,9 ha detto no.

Si preannuncia qualche difficoltà per i nostri 62 mila frontalieri, anche se il provvedimento entra nel mirino dell’Unione Europea che già contesta, in vari negoziati con Berna, la legittimità di altre decisioni. E, per completare il discorso, ricordiamo che anche in Olanda, lo scorso aprile, una consultazione popolare ha detto no all’accordo di associazione della Ue con l’Ucraina: persino un socio fondatore dell’Europa si smarca così da uno dei principi di solidarietà che fanno grande la politica europea.

Paradossale, infine, il caso della Colombia. In questi giorni è stato attribuito il Premio Nobel per la pace al suo presidente Juan Manuel Santos per la tenacia con cui è riuscito (favorito dalla mediazione della chiesa, di Cuba e del ministro degli Esteri norvegese, Borge Brende) a concludere l’accordo con i ribelli delle Farc, dopo una guerra civile durata oltre mezzo secolo e costata al suo paese oltre 260mila vittime, la scomparsa di altre 46mila persone e sei milioni di sfollati sui 49 milioni di abitanti. Ma proprio poco prima, il 2 ottobre, si era svolto un referendum che chiedeva di approvare l’intesa.

Contro ogni previsione ha vinto, con uno stretto margine, il no: 50,21 contro 49,78 per cento, anche se hanno votato soltanto 37 cittadini su cento. Il Nobel comunque rilancia il processo di pace, anche per la disponibilità  degli ex ribelli a rivedere alcune clausole dell’accordo. Nella speranza che la prossima volta prevalga il sì.

L'ECO di San Gabriele
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