Care famiglie, riprendo con gioia il nostro appuntamento, per riflettere insieme con voi sull’attualità della nostra Italia e sul vostro e mio quotidiano. Mi trovo spesso a rimpiangere alcuni “maestri” che non ci sono più ma che hanno lasciato un ricordo così forte che rimane nell’immaginario collettivo e che in questo novembre, mese dei morti, è saggio rammentare.
Ognuno di noi ha avuto i suoi “maestri”, dai genitori, agli insegnanti, alle persone che durante tutto l’arco della vita ci hanno insegnato quali sono le cose veramente importanti e soprattutto ci hanno fatto comprendere le differenze fra l’intraprendere una strada giusta o magari una scorciatoia sbagliata. In politica ci troviamo spesso a rimpiangere personalità del passato che con la loro biografia (perché noi siamo la nostra storia) e il loro comportamento, ci appaiono modelli quasi irraggiungibili.
Durante lo scorso settembre ne abbiamo ricordati due: Aldo Moro, del quale ricorrevano i cento anni dalla nascita e Sandro Pertini (120 anni). Ambedue politici italiani che hanno avuto vite molto difficili, ma che non hanno mai derogato ai loro principi e alle loro scelte. Come tutti sanno, Moro ha pagato con la vita una visione anticipatrice di quello che è oggi il principale partito del paese, il Pd, ossia l’idea unificatrice delle forze cattoliche e postcomuniste e della sinistra in generale; Pertini invece, che ho conosciuto personalmente e del quale quindi posso parlare in modo più approfondito, sarebbe diventato nel 1978, alla bella età di 82 anni il settimo presidente della Repubblica e a furor di popolo, “il più amato dagli italiani”. Proviamo a chiederci il perché: l’uomo Pertini fu lo specchio del politico Pertini e infine del presidente Pertini, e qui, entra di prepotenza la sua storia personale. Ricordiamo infatti che partecipò (e fu decorato) alla grande guerra, che su di lui certamente influirono le dolorose vicende dei suoi due fratelli, uno fascista, Pippo (morto di crepacuore alla caduta della dittatura) e l’altro invece comunista, Eugenio, fucilato a Flossemburg il 25 aprile 1945 proprio mentre il futuro presidente entrava trionfante in una Milano liberata dal nazifascismo.
Fu il primo a nominare finalmente una donna senatore a vita (Camilla Ravera), fu un vero galantuomo: visse il lunghissimo carcere, provvisto di integrità morale che indirizzò in scelte economiche fermissime, che lo ponevano al disopra e al di là di qualunque dubbio (non fu mai sfiorato da alcuno scandalo riguardante interessi privati, giungendo a negare aiuto alla sorella Marion che lo aveva supportato nei duri anni di prigionia per evitare qualunque interpretazione incauta delle sue azioni).
Ricordiamo ancora la lettera con la quale rimproverava duramente la madre che aveva chiesto la grazia per lui al regime e a sua volta la rifiutava: “La comunicazione che mia madre ha presentato domanda di grazia a mio favore, mi umilia profondamente. Non mi associo perché sento che macchierei la mia fede politica che più di ogni altra cosa mi preme”. Possedeva insomma quell’abito mentale e di comportamento avverso a ogni sfumatura di corruzione (non forma ma sfumatura) che lo avvicina ai migliori politici della sua generazione. La sobrietà che lo vedeva, già presidente della Camera dei deputati, girare per Roma a bordo di una cinquecento rossa guidata dalla moglie Carla (lui non aveva la patente), la rinuncia poi all’indennità di capo dello stato e la quotidianità che si può rappresentare in due parole: interpretazione del ruolo del politico come servizio. Nella lunghissima storia senza macchia che lo contraddistingue esiste purtroppo una sgradevole circostanza: la commemorazione della morte di Stalin nel 53, da lui descritto allora come un benefattore dell’umanità, avvenimento che lo avvicina all’accettazione del premio Stalin che nel 51 ricevette Pietro Nenni (e che Nenni in realtà restituì nel 56 devolvendo il denaro alla Croce Rossa). Ma qualunque storico potrebbe giustificarlo ricordando il clima di guerra fredda degli anni 50. Scriveva Indro Montanelli: “Non è necessario essere socialisti per amare Pertini” e non ricordo nessun altro presidente al quale fu dedicata una canzone (Lasciatemi cantare con il ritornello “un partigiano come presidente” di Toto Cutugno).
Si potrebbe definire un “uomo davvero intransigente” che possedeva il contrario delle virtù che dovrebbero essere proprie del governante, prima fra tutte la mediazione: compensate però dalla passione politica, al primo posto nella sua scala di valori. È stato quindi accusato dai suoi detrattori di scivolare nel populismo, ma come non pensare all’attualità (direi meglio necessità) del suo discorso agli italiani del 1979 “la corruzione è nemica della democrazia”. Ricordare il Pertini privato significa descrivere il famoso appartamento di Fontana di Trevi, che io ho visto e posso dichiarare fosse poco più di una stanza, ingombro di omaggi kitsch della gente semplice che lui adorava (indimenticabile una orrenda pipa di cartapesta alta come un armadio che impediva il passaggio). Il suo determinante rapporto con papa Giovanni Paolo II (“il mio amico papa!”). L’essere un uomo di un altro secolo non gli impedì l’attenzione al cambiamento e alla modernità dell’evoluzione dei diritti fondamentali e soprattutto favorì e rafforzò il suo rapporto con i giovani (in questo mi ricorda il cardinal Tonini, il più moderno uomo di un altro secolo che io abbia mai conosciuto), giovani che riceveva a gruppi di 500 ogni qualvolta che non era fuori dal “Palazzo”.
I “ragazzi di Pertini” siete oggi voi, care famiglie, donne e uomini che fate l’Italia, col vostro impegno quotidiano, le figure politiche che amiamo e che vorremmo dovrebbero ispirarsi un po’ di più a Moro e a Pertini, che non persero la loro dignità e le loro convinzioni nemmeno nei momenti più bui. Senza ridurli a “santini” perché sono stati uomini con le loro contraddizioni e i loro problemi, ma ispirandoci al loro insegnamento, per provare, ogni giorno a diventare migliori.