PER FAVORE, IN ITALIANO
Ma perché, cara signora, parliamo tanto in inglese? Ma perché cari pubblicitari, quando reclamizzate la cioccolata, il caffè o l’automobile, perché fate parlare i vostri personaggi in inglese? Ma perché caro giornalista – sì, anche tu – non riesci a scrivere un articolo senza infilarci tre o quattro parole straniere? Apro oggi il Corriere della sera, e pesco a caso una pagina dove si parla della frattura fra Rousseau e Movimento Cinque Stelle. Ebbene, già alla seconda riga mi colpisce la parola deadline che potrebbe essere tranquillamente sostituita con scadenza. E dopo alcune righe un’altra parola rumors che potremmo cancellare senza pentimento e scrivere voci, oppure chiacchiere o pettegolezzi.
Ormai il nostro linguaggio quotidiano è infarcito di anglicismi e non esiste nessun’altra lingua europea che ci batta con risultati spesso ridicoli. Qualche mese fa, nel pieno della pandemia, il Sole24ore scrisse che i medici erano malati di burnout. Non so quanti abbiamo capito il tipo di malattia. Che era solo esaurimento.
Tre sono i motivi di questa deriva. Il primo è politico: gli Stati Uniti hanno vinto la guerra e nell’area dei paesi legati all’America si è imposto l’inglese. Però questo è vero solo in parte. Perché la Francia si è sottratta all’abbraccio e ancora oggi chiama il computer ordinateur.
Il secondo motivo è il mondo dell’informatica – da Facebook a Twitter a Google – dove i termini anglosassoni sono stati travasati da noi senza nessun tentativo di traduzione. E infine c’è un terzo motivo – il più grave – ed è una sorta di provincialismo come se usare una parola della lingua di Shakespeare fosse segno di una cultura internazionale, di una distinzione di casta, di un’aristocrazia intellettuale, di una visione pseudo-cosmopolita della vita.
Ormai i termini inglesi dilagano e sembra un’onda inarrestabile. Il vaccino AstraZeneca dev’essere somministrato agli over 65 (basterebbe dire oltre 65), l’assassino non può essere che un killer e negli inviti non può mancare la location, bruttissima parola che sa di pacchiano. Perfino il linguaggio politico, ormai, non può fare a meno di ricorrere all’inglese: i tagli alla spesa pubblica sono spending review e Renzi chiamò la riforma del diritto del lavoro Jobs act allargando ancora di più il fossato – già profondo – dell’incomunicabilità fra politica e cittadini.
Ma una lingua è anche storia e porta con sé la voce dei secoli, dei poeti, degli scrittori, e anche i dolori di un popolo, le invasioni, le guerre, le sofferenze, i lutti e le vittorie. Ed è qui che si coglie l’assenza della scuola.
Se la scuola italiana funzionasse, se gli insegnanti fossero preparati, se fossero orgogliosi del loro Paese potrebbero invertire questo andazzo e far amare la nostra lingua dagli scolari dimostrando che ci sono, sì, alcuni vocaboli entrati ormai nell’uso quotidiano ma anche tanti vocaboli adottati stupidamente dalla gente, come ticketteria, trovato su un invito a uno spettacolo l’anno scorso.
Se la scuola manca al suo impegno primario, devono supplire i genitori correggendo questo linguaggio anglofilo che si allarga sempre più e sembra una caratteristica prettamente italiana, la Francia sfugge, la Spagna ci prova, e anche la Germania combatte. Ma nessun paese rifiuta più del nostro la propria lingua che è anche la propria tradizione. E solo la famiglia può mantenere vivo quel cordone ombelicale fra passato e presente, fra generazione e generazione, custode di un passato comune che trova nella lingua nazionale un’eredità di ricordi e di valori morali.
Mi viene in mente una bella ma atroce frase di un poeta francese, Remy de Gourmont: “Quando un popolo non osa più difendere la propria lingua, è pronto per la schiavitù”.