PANTALONE NON PAGA…
SECONDO LO STUDIO DELLA CGIA DI MESTRE I MANCATI PAGAMENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NEI CONFRONTI DEI PROPRI FORNITORI AMMONTANO AD ALMENO 55,6 MILIARDI DI EURO
L’estate torrida sta mestamente lasciando spazio a un autunno caldo che rischia di essere caratterizzato dal fallimento di migliaia di attività commerciali e produttive, le quali rischiano di dover portare i libri in tribunale. Il paradosso è che per molte di queste imprese la chiusura definitiva dipenderà dall’impossibilità di pagare i propri debiti, pur vantando crediti inesigibili, ovvero per insolvenze in gran parte imputabili alle inadempienze della Pubblica amministrazione (la famigerata P.A.). Attività imprenditoriali che devono sganciare fior di quattrini allo Stato, rischiano di chiudere i battenti perché non hanno incassato fatture emesse proprio nei confronti dell’entità pubblica, cioè Pantalone, sempre solerte e inflessibile nel reclamare multe e gabelle, molto flessibile quando indossa la veste di debitore. Secondo l’Ufficio statistico dell’Unione (Eurostat), i mancati pagamenti della P.A. nei confronti dei propri fornitori ammontano ad almeno 55,6 miliardi di euro, un “buco” che si somma al deterioramento del quadro economico generale (riconducibile al caro energia/carburante e all’impennata dell’inflazione) e all’impossibilità di cedere i crediti acquisiti con il superbonus 110% (circa 4 miliardi di euro).
A ipotizzare questo scenario fosco è la Cgia di Mestre, specializzata in studi di settore. Se guardiamo la serie storica degli ultimi 10 anni, il picco massimo delle “chiusure” è stato raggiunto nel biennio 2014-2015, cioè 1,5/2 anni dopo la crisi del debito sovrano che ha colpito pesantemente il nostro Paese. Pertanto, come in tutte le recessioni, gli effetti si esplicitano successivamente. Perciò, dopo le difficoltà causate dal Covid nel biennio 2020-2021 e dagli effetti negativi riconducibili alla guerra in Ucraina scoppiata verso la fine di febbraio, a partire da questo autunno il numero dei fallimenti potrebbe tornare a crescere fino a subire una brusca impennata nel 2023. I settori più a rischio sono il commercio e l’edilizia che, in questa prima parte dell’anno, hanno registrato rispettivamente 722 e 577 “chiusure”.
Davanti a norme incerte che da mesi condizionano in modo negativo l’applicazione del superbonus 110 per cento, gli intermediari finanziari (banche, istituti finanziari, etc.) hanno praticamente bloccato gli acquisti del credito. Attualmente sono oltre 5 i miliardi di euro di crediti in attesa accettazione; di questi, circa 4 si riferiscono a prime cessioni o sconti in fattura. A fronte di questa situazione, le imprese del comparto casa (edili, dipintori, installatori impianti, falegnami, eccetera.) non sono più in grado di fare gli sconti in fattura. Con crediti fiscali già acquisiti e non cedibili – che in molti casi ammontano a centinaia di migliaia di euro per singola azienda – molte realtà si trovano in crisi di liquidità e sul punto di sospendere i cantieri, non essendo più in grado di pagare i fornitori. Ma la situazione più problematica rimane lo stock dei debiti commerciali di parte corrente in capo alla nostra Pubblica amministrazione che continua vergognosamente ad aumentare. Come detto, nel 2021 i mancati pagamenti ammontavano a 55,6 miliardi di euro. Ciò vuol dire che le imprese che lavorano per la Pubblica amministrazione non hanno ancora incassato una cifra spaventosa che è pari al 3,1 per cento del Pil nazionale. La situazione è ben diversa per altri Paesi dell’Unione Europea: in Spagna, lo Stato deve alle imprese circa 14,5 miliardi (1,3% del Pil), in Germania 37,4 miliardi (1,2%) e in Francia a 26,4 miliardi (1,2%).
A onor del vero, negli ultimi anni i ritardi di pagamento, misurati con l’Indice di tempestività dei pagamenti (Itp), sono mediamente in calo, anche se secondo la Corte dei Conti si starebbe consolidando una tendenza che vede le amministrazioni pubbliche privilegiare il pagamento in tempi brevi delle fatture di importo maggiore e ritardare intenzionalmente la liquidazione di quelle di importo meno elevato. Una modalità che penalizza le piccole imprese che, generalmente, lavorano in appalti o forniture di importi nettamente inferiori a quelli riservati alle attività produttive di dimensione superiore. Un andazzo che non risparmia nemmeno i ministeri. Nel 2021, ad esempio, tra quelli con portafoglio, solo 2 su 14 hanno rispettato le scadenze di pagamento previste dalla norma (Istruzione/Università/Ricerca e Transizione Ecologica). Tutti gli altri hanno pagato in ritardo. Le cose vanno peggio con gli enti locali dove in alcuni casi (Sicilia) si arriva a pagare in media dopo 18 mesi, mentre i grandi Comuni si attestano sui 12 mesi. Cioè si aspetta da un anno fino a un anno e mezzo per il saldo. Eppure, dal 26 maggio 2019 è in vigore la Legge Europea 2018, che cerca di porre rimedio a una serie di procedure di infrazione avviate da Bruxelles contro l’Italia per il mancato o il non completo rispetto della normativa comunitaria in materia di tempi di pagamento e appalti. La nuova disposizione impone di onorare i debiti entro 30 giorni che possono arrivare a 60 solo per giustificati motivi. Le nuove disposizioni sono state introdotte per ovviare alle numerose procedure di infrazione avviate dalla Commissione Europea per i ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione. Secondo la Commissione, la disciplina italiana attuale consente – di fatto – alle stazioni appaltanti pubbliche di non rispettare i termini. Evidentemente, incapaci di trovare valide soluzioni per uscire dalle crisi, siamo abilissimi nel trovare scappatoie per altre cose. Come si dice: fatta la legge, trovato l’inganno.
Eppure, risolvere questo problema consentirebbe di creare centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro. Secondo l’Ufficio studi della Cgia, se almeno la metà dei 55,6 miliardi di euro di debiti commerciali fosse pagata, allineandoci alla media europea, questa grossa iniezione di liquidità potrebbe contribuire a creare almeno 250 mila nuovi posti. Per risolvere simile annosa questione che sta mettendo a dura prova tantissime piccole e media imprese, la Cgia ripropone una soluzione semplice, più volte indicata in passato sotto elezioni dai partiti (e poi dimenticata dopo il voto…): prevedere per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i crediti certi liquidi ed esigibili maturati da una impresa nei confronti della Pubblica amministrazione e i debiti fiscali e contributivi che la stessa deve onorare all’erario. Quindi, se devo 10, ma avanzo 8, pago 2; oppure, se devo 8 e avanzo 10, non pago nulla, essendo a credito. Talmente semplice che a Pantalone non conviene, evidentemente.