NOSTALGIA DI MAESTRI
“Quando morirò voglio che sulla mia tomba ci sia solo questa scritta: Qui giace M.R. Educatore». Rivedo questo mio vecchio compagno d’università, dopo una lontananza di quasi trent’anni: gli è cresciuta una folta barba, di un bianco candido che lo fa assomigliare a un patriarca o a un mago Merlino, la voce s’è fatta più dolce di chi sa capire e perdonare, gli occhi appena velati ma sempre acuti, il gesto pacato di chi non vuole vincere ma solo convincere.
Quando lo conobbi nel periodo dell’università era già alla ricerca di una filosofia di vita e oggi che tanto tempo è passato è diventato un pensatore che impasta Induismo e Cristianesimo, Buddismo e Metempsicosi. Un melange nel quale lui si muove a suo agio e che ormai è la forma definitiva della sua religione personale. Tiene anche un blog nel quale riceve richieste d’aiuto di donne e uomini in tempesta di dubbio e in crisi d’identità e ai quali è prodigo di consigli e di aiuto (tutto gratis) perché – dice – c’è “tanta gente affaticata da un’esistenza sbagliata” alla quale si può ancora dare un briciolo di felicità. Così profondamente “educatore” che rinunciò a un posto come capo del personale in un’azienda dove avrebbe guadagnato il triplo.
Mentre parliamo in un piccolo giardino impreziosito da alberi di peri e di ciliegi e tra il profumo di un tiglio in fiore, lui parla di vecchi alunni. “Ti cercano ancora?”, chiedo un po’ incredulo. E lui mi risponde che alcuni di quei vecchi ragazzi, oggi uomini maturi, ricorrono ancora a lui perché non hanno dimenticato le sue lezioni di benessere spirituale. E mi racconta di quella ch’è stata la sua vocazione (sottolinea, non professione) di insegnante, aiutare i ragazzi nelle loro crisi, nel loro sviluppo, nei loro amori, nei loro dubbi. “Non ho ricette particolari, mai sgridato un alunno – dice – ho sempre rispettato la loro personalità, ho solo cercato di comprendere, di andare alle radici del problema, far capire un errore, correggere un’adolescenza troppo inquieta, di bloccare una rapida discesa verso la depressione, di sostituirmi alle famiglie tante volte assenti non per pigrizia ma per obblighi di lavoro”. E mi elenca decine e decine di casi, spesso drammatici e incredibili sui quali ha dovuto chinarsi. Una ragazza di dodici anni (ben sviluppata) che veniva raramente in classe e che si prostituiva alla stazione Termini per comprarsi borse e vestiti alla moda e la famiglia ignorava tutto; un diciottenne dalla sessualità inquieta e disordinata; un ladro alle prime armi, rapporti di odio in famiglia. Insomma, tutte quelle crepe che si manifestano nell’età difficile, padri e madri che non seguono più i propri figli o per obblighi di lavoro o per cecità o per incapacità. “Non esistono più quei luoghi educativi di un tempo – dice – come la parrocchia, come le associazioni (tranne rari casi come lo scoutismo), come la famiglia, tanti professori sono diventati dei burocrati culturali mentre aumentano i disagi psicologici che hanno bisogno di essere curati con pazienza, con amore, con intelligenza. Oggi, in un tempo che offre mille richiami, mille seduzioni e tanti esempi sbagliati di vite sbagliate, occorre riempire lo spazio lasciato vuoto perché la scuola è ormai l’ultima trincea che nel bene e nel male resta l’unico luogo educativo che può curare un’adolescenza sofferta. Sono gli anni che spesso determinano il futuro. Non esistono – continua – alunni cattivi, esistono solo insegnanti incapaci. Tre anni fa ho incontrato un mio vecchio alunno che non avevo riconosciuto. Mi ha detto: io le sono sempre grato della sua comprensione, la scuola è stata per me un punto di riferimento, debbo solo a lei se non ho abbandonato gli studi, se non ho fatto naufragio. Lei resta un punto fermo nella mia vita”.
Ascolto in silenzio e mi ricordo che già negli anni universitari ragionava così, mezzo cristiano e mezzo buddista con uno spruzzo di induismo. E ripenso alle parole di Socrate: “l’insegnante mediocre racconta, il maestro ispira”.