Grecia, migranti, astensione elettorale: sono tre questioni che descrivono l’attuale stato di crisi dell’Europa, con qualche aggiunta di sapore etico (come la recente decisione sulle unioni omosessuali) e alcune idiozie di stampo burocratico, per esempio la curvatura delle banane o la lunghezza della pinna del pesce spada. Fra i tre problemi citati, il livello di non partecipazione al voto è una spia del disagio generale difficilmente eliminabile nelle consultazioni che si terranno in un prossimo futuro, anche a livello locale, qua e là nei paesi dell’Unione. All’esterno, la controprova in positivo è fornita dalla Turchia, dove un massiccio afflusso di votanti ha battuto la deriva autoritaria del governo, alle ultime politiche di giugno, con una partecipazione dell’86,5 per cento degli elettori, dimostrazione certa che questi credono nel valore del suffragio universale come arma civile e difesa del diritto.
Per sottolineare la serietà dell’argomento sarà sufficiente allineare alcune cifre, anche abbastanza recenti. Nelle consultazioni europee del 2014 la media dell’astensione è salita al 57 per cento, rispetto al 55,5 del 2009: gli elettori dei ventotto paesi sono aumentati in sette di essi (con il record belga all’89,6), hanno pareggiato in sei (Italia compresa) e sono crollati in 15 (con l’infimo risultato del 13,1 in Slovacchia). Il risultato ultimo è una partecipazione globale su scala europea del 45,5 per cento, in notevole calo rispetto al 62 della prima chiamata alle urne del 1979.
Si tratta di numeri che dovrebbero costituire un campanello d’allarme per quanti credono nei valori della partecipazione e sono un monito che ci riguarda da vicino. È infatti recente l’ultima tornata delle regionali italiane che ha visto come primo partito quello degli astenuti in sette regioni con una media del 47,8 per cento; soltanto la Toscana e le Marche hanno avuto un tasso di poco superiore alla metà degli aventi diritto (il Veneto leghista si è fermato al 42,84). Si capiscono quindi le ragioni di vittorie e sconfitte, come si comprendono le cause della “stanchezza della politica” in un paese come il nostro, per lungo tempo citato come disciplinato modello di elettorato partecipativo. In ogni caso, con un certo compiacimento possiamo ricordare che l’Abruzzo, con “appena” il 38,5 per cento di astensioni, è risultato, l’anno scorso, fra le regioni in testa alla classifica della buona volontà.
Le cifre che abbiamo citato (confermate nelle ultime settimane dalla mancata partecipazione della metà degli elettori alle presidenziali polacche, alle politiche portoghesi e alle amministrative francesi) fanno parte di un discorso complesso che chiama in causa non soltanto la politica e i suoi protagonisti ma anche le responsabilità dei cittadini: non basta infatti scaricare sui rappresentanti pubblici e sugli eletti il malumore (peraltro spesso giustificato) di chi assiste a scandali, malversazioni e corruzione maturati proprio nei palazzi del potere, perché è necessaria allo stesso tempo la capacità di scelte che coinvolgano tutti i soggetti di una democrazia matura.
Chi non vuole drammatizzare sull’astensionismo cita l’esempio degli Stati Uniti, dove a lungo meno di metà dei cittadini ha partecipato alle elezioni: tuttavia anche là si nota una inversione di tendenza, con un aumento delle percentuali di chi si reca alle urne, come se la gente si rendesse conto che il voto è un elemento importante per il funzionamento della comunità. E ci si può augurare che sul tema si sviluppi da noi un dibattito che interessi la società civile. A rischio, un giorno, di doversi pentire per non avervi preso parte.