“Il mondo della solidarietà non è perfetto – osserva la direttrice della sezione italiana di Amnesty International – ma mi preoccupa l’idea che per fare davvero solidarietà occorra essere poveri e austeri e che, appena ci si dota di strumenti per realizzarla in modo più efficace, si diventa sporchi”
“Il Dio personale e la personalità dell’uomo formano un insieme indissolubile». L’osservazione dello storico e filosofo tedesco Bernard Groethusen rende più che mai esplicito il concetto dell’uomo persona e quindi dei diritti e della dignità inalienabili. Grazie al cristianesimo, che ha introdotto una riflessione nuova rispetto al mondo antico, l’uomo è considerato “persona” e di conseguenza il riconoscimento del suo valore centrale ha segnato una svolta epocale nella storia e nella civiltà del mondo. Nel corso degli anni, però, l’arroganza e l’avidità dell’essere umano hanno fatto sì che diritti e dignità diventassero sempre più trattabili fino ad arrivare, in molti casi, alla negazione assoluta. Pensiamo ad esempio alle discriminazioni razziali, alla pena di morte, alle violenze sulle donne, ai maltrattamenti, allo sfruttamento minorile. E poi ancora la povertà, l’esclusione sociale, la persecuzione religiosa, i tanti conflitti bellici. Insomma, l’elenco delle violazioni nei confronti dell’identità e della coscienza di ogni individuo è interminabile. Basta che apriamo un giornale, ascoltiamo un tg o navighiamo in internet per renderci conto come, nel mondo, calpestare i diritti umani sia diventata una pratica diffusa e contagiosa… Più di cinquant’anni fa, però, precisamente nel 1961, un’assurda condanna a sette anni di carcere di due studenti portoghesi colpevoli di aver brindato alla libertà, spinse l’avvocato londinese cattolico Peter Benenson a dare vita ad Amnesty International, un’organizzazione non governativa indipendente di difensori dei diritti umani che si riconosce nei principi della solidarietà internazionale. Da quel giorno è trascorso oltre mezzo secolo di campagne, iniziative e mobilitazioni in tutto il globo terrestre nel nome e nel rispetto dei diritti umani.
Un anno fa sulla poltrona di direttrice della sezione italiana di Amnesty International è stata chiamata Carlotta Sami, 42 anni, una laurea in giurisprudenza e tanta esperienza nonostante la giovane età. Dopo una brillante esperienza come insegnante all’università di Paris X-Nanterre, Carlotta ha iniziato a lavorare concretamente “sul campo” scegliendo come “battesimo” i territori palestinesi occupati. Un posticino “niente male” in tema di diritti umani… È stato l’inizio di un “fare” intelligente e competente che ha apportato una spinta vigorosa allo sviluppo delle diverse iniziative intraprese in favore dei tanti “calpestati” e “senza voce”. La sua grande professionalità e il suo entusiasmo coinvolgente, inoltre, rappresentano un’assoluta garanzia. Nonostante i pressanti impegni legati alle varie campagne, la direttrice ha accettato gentilmente di rispondere alla nostre domande. Ascoltiamola.
Di cosa si occupa Amnesty International?
Della tutela e della promozione dei diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e dai successivi trattati internazionali, attraverso azioni su singoli individui a rischio o campagne internazionali su temi o paesi.
La sezione italiana ha compiti particolari?
Partecipiamo, come le altre sezioni nazionali dell’associazione, alle campagne internazionali la cui efficacia deriva proprio dall’essere portate avanti globalmente. Oltre a questo, c’interessa ovviamente molto la situazione dei diritti umani nel nostro paese e per questo abbiamo lanciato lo scorso gennaio una campagna, chiamata Ricordati che devi rispondere, che chiede alle istituzioni italiane della legislatura scaturita dalle elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi, impegni precisi su un’agenda in 10 punti per i diritti umani in Italia.
Quali sono?
Garantire la trasparenza delle forze di polizia e introdurre il reato di tortura; Fermare il femminicidio e la violenza contro le donne; Proteggere i rifugiati, fermare lo sfruttamento e la criminalizzazione dei migranti e sospendere gli accordi con la Libia sul controllo dell’immigrazione; Assicurare condizioni dignitose e rispettose dei diritti umani nelle carceri; Combattere l’omofobia e la transfobia e garantire tutti i diritti umani alle persone Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate); Fermare la discriminazione, gli sgomberi forzati e la segregazione etnica dei rom; Creare un’istituzione nazionale indipendente per la protezione dei diritti umani; Imporre alle multinazionali italiane il rispetto dei diritti umani; Lottare contro la pena di morte nel mondo e promuovere i diritti umani nei rapporti con gli altri stati; Garantire il controllo sul commercio delle armi favorendo l’adozione di un trattato internazionale.
Come vi finanziate?
Come si può evincere dai nostri bilanci, che sono certificati e pubblici, la stragrande parte delle nostre entrate deriva dalle iscrizioni dei soci, dalle donazioni e da lasciti da parte di privati. Riceviamo inoltre fondi europei per attività di educazione ai diritti umani.
A quanto ammonta il vostro bilancio?
L’ultimo bilancio di Amnesty Internatio-nal Italia, visionabile sul nostro sito, si è chiuso con poco più di 6 milioni di oneri e poco più di 7 milioni di proventi.
È vero che spendete circa un terzo delle entrate per promuovere l’associazione e mantenerla in vita?
La proporzione da lei indicata comprende attività di sensibilizzazione e comunicazione indispensabili per acquisire nuovi soci e donatori e rendere così più efficaci le nostre campagne in difesa dei diritti umani. Grazie a quelle attività e ai costi per svolgerle, Amnesty International può garantire l’indipendenza da finanziamenti pubblici, condizione fondamentale per la credibilità e la serietà di ogni impegno in favore dei diritti umani, Italia inclusa.
Cosa ne pensa del libro-inchiesta L’industria della carità di Valentina Furlanetto che getta ombre pesanti sul mondo della solidarietà e della beneficenza?
Il mondo della solidarietà non è perfetto, naturalmente, ma questo libro mescola giudizi sommari a citazioni imprecise. Trasmette un’idea di fondo che mi preoccupa: che per fare davvero solidarietà occorra essere poveri, austeri, francescani e che appena ci si dota di strumenti per realizzarla in modo più efficace, si diventa “sporchi”.
Sicuramente, però, non è semplice spiegare perché gli stipendi di alcuni manager del settore non profit siano ormai uguali a quelli delle multinazionali… Ad esempio anche la “sostanziosa” buonuscita della ex segretaria generale di Amnesty International, Irene Khan, che ammonterebbe a 533.103 sterline, fa un certo effetto…
È improprio definire “buonuscita” le somme versate nel 2010 all’ex segretaria generale dopo la fine del suo rapporto di lavoro con Amnesty International. Tale cifra comprende lo stipendio del 2009, adeguamenti salariali pregressi, versamenti pensionistici, permessi non goduti e bonus relativi agli anni precedenti. Solo il 36% circa riguarda il trattamento di fine lavoro, riferito a otto anni di lavoro. Comunque abbiamo riconosciuto pubblicamente che si è trattato di un accordo eccessivamente oneroso.
Di quale “battaglia” vinta andate più fieri?
Andiamo fieri degli oltre 50.000 prigionieri di coscienza liberati nei primi 50 anni di attività, dal 1961 al 2011 e di quelli che ogni giorno ritrovano la libertà grazie alle lettere e alle iniziative dei nostri attivisti. Tra le campagne che ricordo più volentieri, è quella che nel 1998 ha portato all’adozione dello statuto della Corte penale internazionale, poi entrato in vigore nel 2002. La giustizia internazionale è lo strumento più prezioso oggi a disposizione per sconfiggere l’impunità e costringere i responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità a rispondere del loro operato.
Il rammarico più grande, invece?
Sono molti: il fatto che per la maggior parte degli abitanti del pianeta, specialmente nelle zone di conflitto, gli articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani restano ancora una chimera. E poi la persistenza di gravi forme di violazione dei diritti umani, come la violenza sulle donne, la tortura. Infine, ciò che favorisce tutto questo: la doppiezza, l’ambiguità, il doppio standard dei governi quando si tratta dei diritti umani: le violazioni si denunciano o si nascondono a seconda della convenienza.
Al tradizionale impegno in favore delle vittime delle violazioni dei diritti umani, avete affiancato un articolato progetto educativo. Nello specifico di cosa si occupa?
È vero, ormai da diversi anni Amnesty International ha affiancato al tradizionale impegno in favore delle vittime delle violazioni dei diritti umani, un ampio e articolato progetto educativo. I programmi di Edu non sono rivolti soltanto alla scuola e all’università, ma anche a contesti diversi (formazione delle categorie professionali, marginalità socio-economica). Vogliamo favorire, me-diante il ricorso a opportune metodologie e risorse educative, la crescita e lo sviluppo di conoscenze, abilità e attitudini coerenti con i principi riconosciuti a livello internazionale in materia di diritti umani.
Il cittadino comune in che modo può essere d’aiuto alle vostre iniziative?
Firmando i nostri appelli online, donando, informandosi presso i nostri gruppi locali di volontari e diventando attivista per i diritti umani a sua volta.
Qual è oggi la piaga più grande da curare in questo nostro pianeta malato?
La discriminazione. È una causa profonda delle violazioni dei diritti umani. Laddove si negano uguale accesso ai diritti e alla giustizia, il mondo si spacca verticalmente in due.
Come combattere la crescente disuguaglianza e la povertà sempre più profonda?
Attraverso azioni dei governi e della comunità internazionale e politiche economiche e finanziarie basate sulla solidarietà e non sullo sfruttamento delle risorse. Infine, per combattere la povertà occorre dare ai poveri il potere di partecipare alle decisioni riguardanti il loro futuro.
Qual è il suo pensiero in merito al problema dei rifugiati?
Ogni rifugiato è conseguenza di violazioni dei diritti umani ma purtroppo di ciò ci si scorda, riducendo le persone a numeri e i numeri a “problema”: per chi li riceve ovviamente, mai per loro. La tutela del diritto d’asilo è sotto attacco in molte parti del mondo, compresa l’Europa dove negli ultimi anni sono state sempre più applicate politiche basate sul respingimento più che sull’accoglienza. L’Italia, con gli accordi sottoscritti con la Libia prima dal governo Berlusconi poi da quello Monti, ha dato un pessimo esempio.
Dal suo osservatorio speciale come giudica oggi la condizione della donna nel mondo?
È una condizione violata e dolorosa. Senza scomodare l’Afghani-stan, in Europa una donna su cinque ha subito violenza e una su dieci ha subito violenza sessuale. In Italia, resta centrale la lotta alla violenza sessuale e in particolare alla violenza domestica, che rimane un fenomeno ancora poco denunciato e quindi in larga parte invisibile. La violenza domestica sta causando un crescente numero di uccisioni di donne per motivi di misoginia: sono oltre 100 le donne che ogni anno, negli ultimi 10 anni, sono state uccise per mano di un uomo e nella metà dei casi il colpevole era il partner o un ex partner. Ma, aggiungo, è una condizione di orgoglio, determinazione e lotta per il cambiamento. Lo dimostrano, tra le tante, le donne egiziane. Più si cerca di espellerle dalle piazze con la violenza sessuale, più sono determinate a restarci.
Quali sono i paesi che più commerciano in armi convenzionali?
In cima alle classifiche dei paesi esportatori figurano, ironicamente, quei paesi che per il loro status all’interno delle Nazioni Unite dovrebbero essere i principali garanti della pace e della sicurezza internazionali.
L’Italia come sta messa?
Ha un posto rilevante in queste classifiche. Noi non abbiamo l’obiettivo di un mondo senza armi, ma di un mondo nel quale vi siano rigidi controlli per evitare che i trasferimenti di armi finiscano nelle mani di chi, forze armate regolari o gruppi armati d’opposizione, le userà per compiere violazioni dei diritti umani. Da anni, chiediamo alle Nazioni Unite l’adozione di un forte trattato sul commercio delle armi.
Per quanto concerne la lotta per l’abolizione della pena di morte qual è la situazione?
Da anni, la domanda che ci si fa non è più “se” la pena di morte sarà abolita, ma “quando”. Con oltre 140 paesi abolizionisti, il boia è ancora al lavoro in 20-25 paesi. Ma considerata la quantità di esecuzioni che ogni anno avvengono in paesi come Cina, Iran e Iraq e valutando anche l’importanza e il peso delle nazioni che ancora praticano la pena capitale (tra le quali Usa, Giappone e India), la strada verso il traguardo abolizionista pare ancora lunga.
Quanto è reale la minaccia della libertà su internet alla luce delle recenti leggi introdotte dal congresso degli Stati Uniti e da altri paesi europei?
Dobbiamo ancora valutare a fondo il possibile impatto sulla libertà d’espressione delle legislazioni europee e statunitensi. Fuori da quelle zone, siamo in pieno dentro quella che chiamiamo “repressione 2.0”. La rete fa paura. Iran, Vietnam sono solo alcuni dei paesi in cui i blogger finiscono in carcere o vengono uccisi per aver espresso un’opinione in rete, aver promosso manifesti di riforme, aver scritto un articolo critico nei confronti di un’autorità di governo.
Come fermare le persecuzioni religiose sempre più frequenti nel nostro pianeta?
Facendo capire agli stati che la libertà di professare in privato e in pubblico, il proprio credo religioso non è una concessione opzionale ma è una delle rappresentazioni più importanti del diritto alla libertà d’espressione. Protestando quando ciò non avviene. Chiedendo a chi ha responsabilità di governo di usare un linguaggio responsabile, di non istigare all’odio religioso, di non aizzare alla violenza contro gli “infedeli”.
Cosa proponete per il sovraffollamento delle carceri?
Come rimarcato nella recente sentenza della Corte europea dei diritti umani, la sovrappopolazione carceraria in Italia ha carattere strutturale e sistemico, risultante dal malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano, che ha colpito moltissime persone ed è incompatibile con la convenzione europea dei diritti umani. Il tasso nazionale di sovrappopolazione si aggira intorno al 150 per cento e oltre il 40 per cento dei detenuti è costituito da persone sottoposte a carcerazione cautelare in attesa di giudizio. L’Italia deve garantire condizioni di detenzione dignitose e deve contrastare e prevenire il sovraffollamento carcerario attraverso una strategia coerente, come raccomandato dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. A tal fine, le politiche penali dovrebbero prevedere una riduzione del ricorso alla detenzione e un maggiore uso di misure alternative. Chi è soggetto a condizioni di detenzione contrarie al divieto di trattamenti disumani e degradanti dovrebbe vedere al più presto cessare tale situazione e chi ha subito tale condizione in passato dovrebbe poter ottenere un risarcimento.
In che dimensioni è presente in Italia lo sfruttamento dei lavoratori migranti?
In modo massiccio, favorito anche da scelte legislative sbagliate che ostacolano l’accesso alla giustizia e dunque la possibilità di uscire dallo sfruttamento. Per proteggere i migranti dallo sfruttamento serve una politica migratoria diversa, che tenga conto della realtà del mercato del lavoro e della domanda reale di manodopera migrante, superiore a quanto sinora considerato dalle quote di ingresso legale. È necessario inoltre abrogare la norma del “pacchetto sicurezza” che criminalizza l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello stato.
I settori più interessati riguardano l’edilizia e l’agricoltura?
Come emerso da una nostra recente ricerca lo sfruttamento del lavoro dei lavoratori migranti nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia in parecchie zone dell’Italia meridionale è diffuso. Essi ricevono paghe inferiori di circa il 40 per cento, a parità di lavoro, rispetto al salario italiano minimo concordato tra le parti sociali e lavorano un maggior numero di ore. Le vittime dello sfruttamento del lavoro sono in larga parte migranti africani e asiatici.
Un’ultima curiosità: qual è la posizione di Amnesty International in merito all’aborto?
Non siamo dalla parte dell’aborto. La nostra posizione si basa sul principio che ogni donna ha il diritto di essere libera da ogni forma di coercizione, discriminazione e violenza quando prende e attua decisioni informate riguardanti la riproduzione, comprese quelle riguardanti il proseguimento o il termine di una gravidanza. Chiediamo dunque agli stati di modificare o abrogare le leggi per effetto delle quali le donne possono essere sottoposte a imprigionamento o ad altre sanzioni penali per aver abortito o cercato di abortire; garantire che tutte le donne con complicazioni sanitarie derivanti da un aborto abbiano accesso a trattamenti medici adeguati, indipendentemente dal fatto che abbiano abortito legalmente o meno; garantire l’accesso a servizi legali e sicuri di aborto a ogni donna la cui gravidanza sia dovuta a una violenza sessuale o a incesto o la cui gravidanza presenti un rischio per la sua vita o la sua salute.