NOI SIAMO L’EDIFICIO DI DIO

By Mons. Antonio Riboldi
Pubblicato il 2 Novembre 2014

La parola di Dio in questi giorni ci ha interpellato, e seriamente, su cosa intendiamo per chiesa. Se ci facciamo caso, normalmente ci fermiamo al tempio. Ogni paese, ogni comunità, ha la sua chiesa e tutti consideriamo solo questo aspetto: la chiesa come luogo dove avviene l’incontro a tu per tu con Dio, nelle liturgie, nella preghiera e nell’adorazione del Santissimo Sacramento.

Ci sono chiese o cattedrali, che sono un vero splendore di arte, altre più modeste, ma tutte case di Dio. I nostri fratelli nella fede si sono sempre prodigati affinché le “case di Dio con noi” fossero belle, creando dei veri capolavori d’arte, ma ricordo che, dopo il terremoto del Belice, Paolo VI raccomandava a noi parroci, nel momento della ricostruzione, di costruire chiese a misura di abitanti, semplici, ossia che rispecchiassero la povertà dei fedeli.

Se intendiamo per chiesa il luogo di incontro con Dio, tutto può essere chiesa: la famiglia, detta piccola chiesa domestica, e lo stesso luogo di lavoro. Quello che conta è che rispecchino la presenza del Padre, perché essere chiesa, significa soprattutto essere un popolo in cammino, guidato dallo Spirito di Dio, attraverso i suoi pastori. La nostra appartenenza alla chiesa inizia il giorno del battesimo, la vera seconda nascita. Nella chiesa siamo cresciuti, con i sacramenti della riconciliazione e dell’eucaristia e siamo stati accolti di fatto con il sacramento della cresima, che ci ha resi consapevoli testimoni della fede. Nella chiesa tanti hanno iniziato il cammino della loro specifica vocazione, con la celebrazione del sacramento del matrimonio. Nella chiesa, Dio ci raduna come una sola famiglia che si ama e cresce con lui nell’amore.

Fuori si rischiano false amicizie o compagnie che devastano la bellezza della nostra vita interiore, distruggono l’edificio di Dio che noi siamo.

Ma papa Francesco, nella recente esortazione apostolica Evangelii gaudium e in tanti suoi interventi, sottolinea con forza un altro aspetto, proponendo “una chiesa in uscita”.

Il nostro è tempo di inevitabili fallimenti, se vogliamo, ma di meravigliose sfide, che conoscono la loro audacia nella fiducia in Dio che se “chiama e manda” sa di avere una potenza tale da abbattere ogni difficoltà. È tempo di coraggio evangelico, che non è esibizionismo di potenza umana, ma di umile servizio alla fede e agli uomini.

La storia di Pietro, invitato ad “andare al largo e gettare le reti”, divenuto poi “pescatore di uomini” lo dimostra e non solo allora, ma in tutta la storia della chiesa.

Sono impensabili alla luce della chiamata di Gesù, comunità o famiglie che sono ripiegate su se stesse, come avessero scelto le catacombe per vivere la propria vita cristiana, anziché le vie del mondo per recare la luce a tutti gli uomini.

Al Signore che diceva a Isaia: “Chi manderò e chi andrà per noi?”, il profeta rispose: “Eccomi, manda me!”. È un poco la storia di tutti quanti Dio ha chiamato per diventare “pescatori di uomini”, o, se vogliamo, anche di ogni battezzato, a sua volta chiamato e scelto da Gesù a seguirlo nel battesimo e nella confermazione e quindi invitato a gettare le “sue reti al largo”.

Dovrebbe, questo, essere l’atteggiamento di chi sente dentro di sé l’amore di Dio e l’amore per gli uomini. Ma per questo occorre che in ognuno avvenga “il passaggio da una fede di consuetudine, pur apprezzabile, a una fede che sia scelta personale”, come molto si è evidenziato durante il convegno diocesano della mia cara Acerra, da parte del nuovo pastore, monsignor Di Donna.

È necessario che ogni battezzato, sentendo la chiamata, risponda con la vita.

Come ha detto papa Francesco, “chi conosce Gesù, chi lo incontra personalmente, rimane affascinato. Trovare Gesù è avere la gioia cristiana, che è un dono dello Spirito Santo, gioia che si vede, traspare in ogni parola, in ogni gesto, anche in quelli più semplici e quotidiani…”.

Solo incontrando personalmente Gesù, il nostro cuore può davvero essere toccato e la nostra testimonianza diventare contagiosa. Ogni cristiano, per la sua vocazione alla santità, dovrebbe testimoniare, perché, più che chiamarsi cristiano, sia cristiano.

Diceva una volta il grande cardinale Schuster a Milano, parlando ai seminaristi: “La gente quando vi vede uscire dalla santa messa, per la scarsa testimonianza di gioia, che dovrebbe essere il frutto dell’eucaristia, non si ferma a guardarvi. Ma se incontra un santo, tutti, senza eccezioni, sono attirati e si fermano a guardarlo, come fosse la risposta ai tanti interrogativi della vita, alla ricerca della verità, che vi è in ognuno di noi”.

In un discorso, solo poche settimane dopo la sua elezione alla cattedra di san Pietro, papa Francesco così esprimeva il suo rammarico per una fede epidermica di tanti, contraddetta dalla condotta, e la necessità di coerenza alla vera sequela di Gesù: “bisogna uscire da se stessi”, da un modo stanco e abitudinario di vivere la fede, chiuso nei propri schemi. Qualcuno – continuava il pontefice – potrebbe dire: ma padre non ho tempo, ho tante cose da fare, è difficile, che cosa posso fare io con le mie poche forze? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo il coraggio di “uscire” per portare Cristo.

Bisogna tornare a essere cristiani convinti e gioiosi, per essere capaci di andare incontro a chi si è allontanato dalla fede per varie ragioni, rispondendo a un bisogno che oggi più che mai, secondo papa Francesco, ha la chiesa: “La capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità”.

Non ci resta che chiedere allo Spirito di provare gioia e orgoglio anche noi, per “essere edifici di Dio dove egli abita e suo popolo in cammino”.

 

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