“NESSUNO HA MAI CHIESTO IL MIO PERDONO”

Nel mio essere non c’è una componente rancorosa, ho sempre chiesto solamente giustizia. La morte di mio fratello Giovanni non è stata vana, ha risvegliato la coscienza degli italiani, il suo sacrificio è servito a creare una società nuova”

Quel pomeriggio ero a casa e ricevetti la telefonata di una mia amica. Rispose mio marito e dalla sua espressione capii che era successo qualcosa di grave. Come sempre il mio primo pensiero andò a Giovanni… Mi disse che era successo qualcosa a lui e che dovevamo accendere la televisione… Chiamai la Polizia, mi dissero che era stato trasportato all’Ospedale Civile. Giunta in ospedale mi venne incontro Paolo Borsellino con le lacrime agli occhi, Giovanni era morto pochi minuti prima tra le sue braccia…» Così Maria Falcone riavvolge, con noi, il nastro dei ricordi fermandosi a quel terribile 23 maggio 1992. Sull’autostrada che da Trapani porta a Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci, 500 chilogrammi di tritolo fecero saltare in aria un tratto di asfalto uccidendo Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Una scenario apocalittico quello che si presento agli occhi dei soccorritori. La Fiat Croma blindata, con dentro il giudice Falcone e sua moglie, non fu investita direttamente dalla potente esplosione, ma risultò fatale il violento impatto contro il muro di asfalto e detriti creatosi dallo scoppio. Dolore e morte da una parte, gioia e festeggiamenti all’interno di Cosa nostra che con quell’attentato, deciso nel corso di una riunione presieduta da Salvatore Riina e a cui partecipò anche Matteo Messina Denaro, all’epoca potente capomandamento di Castelvetrano e oggi considerato tra i latitanti più pericolosi e ricercati al mondo, diede il via alla strategia stragista. Una scelta assassina che si trasformò, come ci racconta la storia, in un boomerang per Cosa nostra. La reazione dello Stato e di tutta la società civile fu però poderosa, un riscatto collettivo che rappresentò, sotto diversi aspetti, la rinascita dell’intero Paese. A iniziare dalla creazione della Fondazione Falcone che da 30 anni ricorda il sacrificio di Giovanni Falcone e di tutte le vittime della mafia. Manifestazioni, seminari, cortei, convegni, progetti sulla legalità che ogni anno coinvolgono migliaia di studenti. Ogni 23 maggio, poi, la Nave della legalità, porta a Palermo ragazze e ragazzi delle scuole di tutto il Paese. La città si riempie di giovani che ricordano Giovanni Falcone nell’aula bunker del carcere Ucciardone dove venne celebrato il primo maxiprocesso a Cosa nostra. In centinaia sfilano in corteo fino all’Albero Falcone, davanti all’abitazione in cui il magistrato viveva. Il 23 maggio, dunque, è diventato un giorno di festa e speranza, anziché di lutto e dolore. Le tante attività della Fondazione, presieduta dalla professoressa Maria Falcone, hanno coinvolto anche il mondo universitario promuovendo e diffondendo l’impegno nel sociale e la cultura dell’antimafia attraverso ricerche, spettacoli teatrali, video e inchieste. Insomma, le morti di Giovanni Falcone e di tutte le vittime della mafia non sono state vane, anzi hanno infatti dato vita a segnali molto forti di riscossa, di voglia di riscatto, di ribellione civile positiva.

In questa direzione di strada ne è stata fatta, ma certamente ne resta ancora tanta. Ecco perché la professoressa Falcone procede senza soste e in maniera encomiabile lungo la via tracciata da suo fratello. Cercare, cioè, la giustizia in tutte le situazioni della vita. E naturalmente camminando insieme, vivendo con gli altri e per gli altri.

La ricorrenza dei trent’anni anni dalla strage di Capaci rende le sue giornate ancora più frenetiche, ma per L’Eco la professoressa Maria Falcone trova sempre un momento… Eccolo.

Quanto le manca, professoressa, suo fratello?

Non è facile dirlo in poche parole… Mi manca come fratello e come magistrato.

E all’Italia?

Manca il suo senso del dovere, il suo metodo, manca la sua grande voglia di fare qualcosa per la sua patria, per la sua città e non soltanto in ragione della sua lotta alla mafia ma in funzione di un funzionamento migliore di tutta la macchina della giustizia. Soprattutto in questo momento in cui si discute della riforma della giustizia, il suo apporto e le sue conoscenze sarebbero state fondamentali.

Sarebbe contento dell’uso che ne ha fatto il Paese della sua eredità morale e professionale?

Credo di sì, visto che viene recepita ogni giorno sempre di più da tutte le classi sociali. E la grande attenzione e il desiderio di ricordarlo ogni anno da parte della società civile dimostra che il seme ha dato i suoi frutti. Ritengo che qualsiasi strato della società abbia capito l’importanza del suo lavoro, non solo circoscritto all’epoca in cui ha operato ma anche alle sue idee che restano valide e attuali anche oggi. Ad esempio, il dibattito in corso sulla riforma della giustizia riguarda anche la separazione delle carriere, argomento che Giovanni aveva affrontato già trentacinque anni fa…

Giustizia, verità e libertà hanno sempre un prezzo che spesso richiede capacità di perdonare… Lei ha perdonato gli assassini di quella strage?

Io sono molto religiosa di conseguenza ritengo che il perdono sia molto importante nella vita di una persona. Nello stesso tempo, però, ritengo che il perdono vada chiesto… Darlo senza nessun richiesta credo sia privo di significato.

Quindi mai nessuno le ha chiesto di essere perdonato…

Nessuno degli assassini lo ha mai fatto. Nel mio essere non c’è una componente rancorosa, ho sempre chiesto solamente giustizia. Naturalmente se il perdono risultasse utile a chi ha intrapreso un cammino di cambiamento interiore e di riscatto morale, sarei felicissima di concederlo.

Qual è il consuntivo del percorso compiuto in questo trentennio dalla Fondazione?

Dal mio punto di vista lo ritengo particolarmente positivo in quanto non abbiamo permesso che la memoria di tanti uomini e donne caduti per contrapporsi alla mafia, e non solo di chi è morto nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, venisse in qualche modo dimenticata o sbiadita. Attraverso il lavoro della Fondazione, la società ha capito, nel corso degli anni, quanto sia importante combattere la mafia. Mi riferisco a tutte le mafie che opprimono il nostro meridione confinandolo, di fatto, in una posizione di inferiorità rispetto al resto del Paese.

Suo fratello, come anche Paolo Borsellino, contava sulle nuove generazioni per cambiare le cose. Da professoressa e da presidente della Fondazione ritiene che la loro fiducia sia stata ripagata?

Assolutamente sì. Se tanti giovani che non li hanno neanche conosciuti, che non hanno vissuto la tragedia delle stragi, si accostano alle varie assemblee e alle manifestazioni con tanta attenzione e con tanto amore, c’è da essere fiduciosi per il futuro.

Quindi si può parlare di risveglio, di un nuovo cammino della società civile dove trovano spazio denuncia, partecipazione, condivisione, rinuncia a compromessi?

Non posso affermare lo stereotipo di una società completamente risanata, ma certamente posso certificare un importante percorso compiuto in questi anni, una grande presa di coscienza e una maturazione civile rispetto alla problematica criminale.

Da anni, fortunatamente, non si sono più verificate stragi nei confronti di chi è impegnato nella tutela dei valori della legalità e dell’antimafia nella società. Ciò significa che lo Stato si è riappropriato dei territori risanandoli dalla presenza criminale, oppure è solo una strategia del potere mafioso che, invece, continua comunque a portare avanti le proprie attività?

Io ci metterei dentro un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Lo Stato in questi anni ha continuato sicuramente a svolgere un gran lavoro investigativo e giudiziario che ha indebolito il potere mafioso. Dall’altra parte, però, sappiamo benissimo che la mafia non è scomparsa e quindi la strategia di lavorare sotto traccia, essendo consapevole che le stragi si sono rilevate per loro un grosso danno, è una cosa concreta.

A suo avviso, allora, in cosa dovrebbe migliorare l’azione dello Stato?

L’importante è non avere momenti di pausa, è fondamentale mettere al primo posto nell’agenda di governo la lotta alla mafia.

Chi collabora con lo Stato – sosteneva suo fratello – difficilmente potrà rientrare nel circuito della criminalità, cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti dei quali ha denunciato i misfatti. Senza effetti favorevoli, il fenomeno della collaborazione con la giustizia degli imputati è destinato ad esaurirsi in breve tempo”. Lei che idea ha dei pentiti?

Sono d’accordissimo con il pensiero di mio fratello e di tanti altri magistrati. I pentiti hanno rappresentato e rappresentano uno strumento fondamentale per scoprire cose che solo chi è dentro può farle venire a galla. Naturalmente è importante la gestione dei collaboratori di giustizia e il saper trovare nelle loro dichiarazioni quei riscontri essenziali per convalidare le loro confessioni.

Che ne pensa della latitanza di Matteo Messina Denaro?

Credo sia nascosto ancora in Sicilia grazie alla grande rete di protezione della mafia. Mi dicono però che queste difese si stiano sempre più assottigliando. Mi auguro quindi che prima o poi, grazie anche alle nuove tecnologie investigative, si riesca ad arrestarlo.

In conclusione, qual è il messaggio di Maria Falcone a trent’anni dalla strage di Capaci?

La morte di mio fratello non è stata vana. Nonostante mi manchi tantissimo, Giovanni ha risvegliato la coscienza degli italiani. Il suo sacrificio è servito a creare una società nuova, portando raggi di sole sul cammino futuro.

L RICORDO DEL PENTITO GASPARE MUTOLO UOMO E MAGISTRATO ESEMPLARE”

“Sicuramente il mio ricordo del giudice Giovanni Falcone è più che positivo e affettuoso. Era un magistrato esemplare, desideroso di percorrere la via della giustizia senza compromessi. La sua iniziativa era rivolta non solo alla mafia ma a qualunque tipo di corruzione e questo ne faceva un uomo particolarmente apprezzato e stimato. Era appassionato del suo lavoro, convinto che lo Stato riuscisse a vincere la difficile battaglia, anche perché era giustamente convinto che nella società c’è una larga fetta di cittadini onesti. In particolare aveva grande fiducia nei giovani. Ci credeva così tanto che ha sacrificato la sua vita».

Queste parole affidate alla nostra rivista non arrivano né da un familiare, né da un collega di Giovanni Falcone. A pronunciarle è Gaspare Mutolo, 82 anni, ex autista e uomo fidato di Totò Riina nonché uno dei primi, se non il primo, collaboratori di giustizia ai tempi del giudice Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.

Da qualche settimana è tornato un “uomo libero”, uscendo, dopo ben 31 anni, dal programma di protezione. Può muoversi ovunque senza dover avvisare nessuno e mostrando la sua faccia. Non dovrà più indossare alcuna maschera…

“Giovanni Falcone – racconta – era finito nel mirino della mafia molto tempo prima della strage di Capaci. Già nel 1982 nell’ambiente mafioso si parlava di una sua possibile uccisione perché aveva toccato, con le sue indagini, i cosiddetti colletti bianchi… Sicuramente se Giovanni Falcone fosse rimasto in vita avrebbe inferto un colpo mortale alla mafia. Lui, infatti, riteneva la mafia un ‘fenomeno’, e come tutti, dunque, aveva un inizio e una fine…. Aveva iniziato un’importante opera di pulizia e di ripristino della legalità, un’azione che purtroppo, però, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, aveva subito una brusca frenata. Ora, però, ringraziando Dio, all’orizzonte s’intravedono segnali di speranza. Parlo non solo della lotta alla mafia, intesa come un problema siciliano, bensì contro il malaffare a 360°. Ci sono persone che hanno sacrificato la loro vita per un mondo migliore ”.

La conoscenza con Giovanni Falcone risale al 1982. “In quell’anno fui fermato, insieme a una trentina di persone, in merito all’inchiesta sulle uccisioni di un mafioso, del suo autista e di alcuni carabinieri, avvenute a Palermo. A mio carico, però, non c’erano prove e prima di essere scarcerato, il giudice Falcone spiccò un ordine di cattura nei miei confronti, di Tommaso Buscetta e Koh Bak Kin con l’accusa di associazione mafiosa e traffico internazionale di droga”.

Nel 1986 venne coinvolto nel Maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, dopo la sentenza di primo grado (dicembre 1987), fu condannato a dieci anni di reclusione. Qualche anno dopo, però, precisamente il 15 dicembre 1991, Mutolo iniziò la collaborazione con la magistratura. “Quella data – sottolinea – rimarrà sempre nel mio cuore. Chiesi di incontrare il giudice Falcone per iniziare il mio percorso di pentimento che, ci tengo a chiarirlo, ha una doppia veste. Quella privata, che riguarda la sfera religiosa e quella con la giustizia. In quel periodo ero recluso nel carcere di Spoleto e un giorno, appunto, venne a trovarmi per un colloquio il giudice Giovanni Falcone, accompagnato da un collega, Giannicola Sinisi. Gli dissi che avrei voluto collaborare mettendo una pietra tombale sulla mia attività mafiosa. Non volevo più appartenere a quell’ambiente di bestie… In quei giorni, infatti, avevano ucciso in un agguato tre donne, di cui una in attesa di partorire… Cose orribili che ancora oggi mi lasciano sgomento. Giovanni Falcone era un giudice che avevo sempre ammirato per la sua serietà, la sua correttezza e la competenza. Nel colloquio, però, mi disse che non avrebbe potuto raccogliere la mia testimonianza in quanto non ne aveva più facoltà. In pratica era stato trasferito a Roma a dirigere la sezione Affari Penali del ministero di Grazia e giustizia. A quel punto, allora, dissi che non se ne sarebbe fatto più niente perché era di lui che mi fidavo. Il nostro incontro durò circa due ore e alla fine mi convinse ad andare avanti. Mi disse che il suo lavoro al ministero non rappresentava una fuga, bensì era una grande occasione per incrementare e migliorare l’azione dello Stato nei confronti del potere mafioso e della illegalità in genere. Mi disse che ne avrebbe parlato con Paolo Borsellino. La cosa, però, non piacque all’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, il quale disse che non avrei potuto scegliermi l’interlocutore. Io, però, mi rifiutai di parlare con altri. Trascorsero circa sei mesi di silenzio, poi finalmente potei parlare con il giudice Paolo Borsellino. La mia collaborazione – continua Mutolo – grazie anche alla figura di Giovanni Falcone ha aperto la porta a tanti altri mafiosi… E in questo sono stato aiutato dal Signore, visto che, oltre alla collaborazione con la giustizia, ho vissuto una conversione reale e profonda abbracciando la fede. La scelta del collaboratore, solitamente, punta a ottenere un qualcosa in cambio, nel mio caso, invece, c’è stato anche il pentimento del cuore per il male procurato”.

Oggi Gaspare Mutolo vive per la pittura, la sua grande passione nata in carcere. “Ho iniziato nel 1983 nel carcere Sollicciano (Firenze, ndr), a insegnarmi i primi passi è stato un ergastolano che si faceva chiamare Aragonese. Attraverso i dipinti testimonio la mia esperienza, i miei errori e la mia nuova vita. Metto in guardia soprattutto i giovani sull’importanza della legalità e della libertà. Non penso mai che qualcuno possa uccidermi, credo di aver intrapreso la strada giusta e grazie all’aiuto di Dio cerco di rimediare ai miei tanti errori. Ovviamente quando verrà il mio giorno, sarà solo lui a giudicarmi”.