NEI CARAIBI È SCOPPIATA LA PACE
Un esempio a me molto caro di come il dialogo possa davvero edificare e costruire ponti viene dalla recente decisione degli Stati Uniti d’America e di Cuba di porre fine a un silenzio reciproco durato oltre mezzo secolo e di riavvicinarsi per il bene dei rispettivi cittadini». Con una frase contenuta in un articolato discorso ai membri del corpo diplomatico, il 13 gennaio, papa Francesco ha asciuttamente sintetizzato la propria soddisfazione per un altro muro crollato (fra i tanti che ancora, purtroppo, esistono) in un mondo nel quale continuano a infierire diecine di conflitti.
Il ristabilimento delle relazioni diplomatiche fra i due paesi, interrotte nel 1961, non è soltanto un evento maggiore nella storia dei loro rapporti (e forse costituisce la sola buona notizia di tutto lo scorso anno), ma può costituire un positivo detonatore all’interno dell’intera America Latina, incoraggiando – là dove ce ne sia bisogno, per esempio in Colombia – la convivenza politica fra parti sino a ora in lotta.
L’annuncio, dato in simultanea il 17 dicembre 2014, dal presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, e dal capo dello stato cubano, Raùl Castro, ha colto di sorpresa l’opinione pubblica internazionale, oltre a quelle americana e isolana. Le trattative, infatti, si erano svolte da parecchi mesi nel massimo riserbo, e il Vaticano, con il Canada, vi aveva avuto un ruolo determinante. Come è dimostrato dai pubblici, calorosi ringraziamenti che Obama e Castro hanno rivolto alla santa sede e personalmente a papa Francesco per i buoni uffici spiegati.
Si scioglie in tal modo uno dei problemi che avvelenavano i rapporti di Washington con l’intero mondo latino-americano (l’altro è quello degli immigrati); e si prospetta quel “futuro che è già iniziato il 17 dicembre”, come ha detto lo scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes. Senza troppe illusioni, forse su uno sviluppo “liberale” a breve termine dell’isola caraibica, ma con qualche speranza forse in un regime meno oppressivo e in una ripresa economica di cui i cubani sentono il bisogno. Speranze alimentate dall’azione della chiesa che, oltre a essersi sempre schierata a difesa dei diritti umani (non senza rischi e persecuzioni), non ha mai “mollato” la presa, sia all’interno, sia verso l’esterno.
Basterà ricordare quanto hanno fatto i vari pontefici. Da Giovanni XXIII che si interpose perché la crisi americano-sovietica dell’autunno 1962 non diventasse un olocausto nucleare (e Cuba ne sarebbe stata la prima, immediata vittima) a Giovanni Paolo II che non mancò di visitare l’isola nel 1998, dopo aver ricevuto due anni prima Fidel Castro a Roma, a Benedetto XVI nel 2012, con la severa denuncia, evidentemente rivolta agli Stati Uniti, di “misure economiche restrittive imposte dall’esterno”.
I 150 chilometri di acque che separano l’isola dal continente americano non sono più invalicabili. Oltre alla liberazione di prigionieri dalle due parti, sono state approvate misure di liberalizzazione dei viaggi, facilitazioni economiche e per forniture di materiali, mentre ci si appresta a sviluppare la rete internet. Con qualche malumore negli ambienti di destra americani: non si sa quanto i repubblicani, che hanno la maggioranza al senato e ai quali tocca autorizzare la cancellazione dell’embargo, siano disposti a farlo anche se altri ambienti conservatori, come le potenti camere di commercio, sono a favore. La stessa numerosa comunità cubana è spaccata: nel 2014 soltanto il 48 per cento dei due milioni di esuli appoggia le sanzioni economiche, contro l’87 per cento del 1991. Ma sono i fatti a comporre la storia e l’avvenire tra Cuba e gli Usa è ormai affidato a un gesto di pace.