Mosè: sulla strada della libertà
Mosè: tra fatiche e fragilità
Il racconto dell’esodo, considerato evento fondatore dell’identità stessa d’Israele, ha come protagonista la figura di Mosè. Egli rappresenta il personaggio-simbolo dell’alleanza sinaitica e della Legge donata da Dio al popolo eletto. La sua vicenda esistenziale è contrassegnata da tante resistenze e fatiche. Nel filo narrativo dell’intero Pentateuco emergono debolezze e fragilità, sofferenze e ribellioni. “Mosè è il primo che prova la sofferenza della vocazione profetica…egli è il profeta del dubbio, del rifiuto, della rivolta, ed è a lui che noi ritorniamo incessantemente, quando cerchiamo l’esempio di una profezia nel dolore” (A. Neher). Secondo l’etimologia popolare nel suo nome “Mosè” si condensa l’essenza della sua missione: egli è l’uomo “salvato dalle acque” e un giorno sarà lui a far passare attraverso le acque del mar Rosso il popolo in cammino verso la libertà. Il libro dell’Esodo si apre con la persecuzione del faraone contro i “figli di Israele” e la salvezza del bambino da parte della stessa figlia del faraone. Nato da una famiglia ebraica, il bambino è allevato presso la corte del faraone. La prima grande fatica per Mosè è vivere come in una doppia identità: ebreo o egiziano? Salvato o salvatore? Con il suo popolo oppresso o alleato dei suoi oppressori?
Appartenere a Dio
La vocazione di Mosè è da considerarsi un vero itinerario, una sorta di “esodo” dentro l’esodo (cf. Es 3,1-4,18). Sappiamo come giovane cadetto della corte egiziana, Mosè tenta di fare giustizia a favore degli ebrei che erano vessati dai sovrintendenti egiziani. Ricercato per omicidio, egli è costretto a fuggire profugo dall’Egitto e a riparare nel territorio di Madian, portando con sé il fallimento e il dolore della sua gente oppressa. In questo tempo di solitudine e di abbandono, mentre vive lontano dalla sua gente e si purifica nel crogiuolo della sua sofferenza, avviene la chiamata dal roveto ardente: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe […]. Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele” (Es 3,6-8). Il Signore si manifesta imprevedibilmente come “Dio di tuo padre, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” e lo invia a liberare il suo popolo: “Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!” (Es 3,10). Il Dio che chiama rivela il suo nome e i colloca nelle relazioni familiari: i nomi dei patriarchi che appartengono a Mosè e al suo popolo, sono “parte della sua storia”. È questo il primo esodo di Mosè: entrare in un’appartenenza di fede altrimenti egli non potrà capirsi, né interpretare gli avvenimenti drammatici che stanno accadendo.
Chi sono io?
Dalla narrazione di Es 3-4, emerge un profilo espressivo della debolezza umana e della sofferenza del personaggio. Egli cerca di prendere le distanze da un Dio imprevedibile che gli prospetta la missione liberatrice. Alla prima resistenza di Mosè (cf. Es 3,13), Dio si rivela come Yhwh e invia Mosè in Egitto per riunire gli anziani del popolo e preparare la convocazione santa (cf. Es 3,14-22). Mosè pone una seconda resistenza a scegliere, motivata dal tema dell’attendibilità della sua missione: l’incredulità del popolo richiede un “segno dimostrativo” (cf. Es 4,1). In risposta, Dio affida al patriarca tre segni: il bastone (che si trasforma in serpente), la guarigione della mano (lebbrosa), il potere sulla trasformazione dell’acqua in sangue (cf. Es 4,2-9). Mosè pone una terza resistenza: la difficoltà di parlare e l’incapacità di saper convincere il popolo (cf. Es 4,10). Ancora una volta Dio gli promette l’assistenza e gli conferma la fiducia. Alla fine Mosè, messo alle strette, cerca di disimpegnarsi dal mandato ma Yhwh lo conferma nella missione insieme al fratello Aronne (cf. Es 4,14-17). Le resistenze segnano una parabola dalla persona di Dio e quella del profeta, dall’ineffabile libertà di Yhwh alla situazione di paura e d’impotenza dell’uomo. Si coglie la fatica dell’esperienza della fede, caratterizzata dalla dialettica drammatica tra resistenze e pretese. Mosè ha paura del mistero che gli sfugge, mentre vorrebbe avere Dio a suo servizio. Il primo vero esodo di Mosè è “uscire” dall’immagine falsa e magica di Dio, per avventurarsi nella fede che implica una relazione personale di affidamento e di appartenenza, di fiducia totale verso il Vivente.
Il passaggio della fede
La straordinaria narrazione dell’esodo è dominata dall’evento del passaggio del mare (cf. Es 14). Nel segno della rigenerazione, Mosè con il suo popolo vive la prima Pasqua (cf. Es 12) e si mette in cammino verso la Terra promessa. Dalla morte alla vita: il miracoloso passaggio del mare va interpretato come cammino di fede di tutta la comunità ebraica. Tra resistenze e lamenti, Mosè si sente chiamato a superare gradualmente le crisi e a maturare una fiducia fondamentale che gli permetterà di rincuorare il popolo nelle successive prove del deserto. La fede di liberatore cresce in una progressiva “mediazione” caratterizzata da un rapporto profondo con Dio e nello stesso tempo dalla solidarietà con la sua gente. Nel mezzo c’è il deserto, luogo della prova e della ricerca della fede. È fondamentale la sosta presso il monte Sinai: Dio si rivela a Mosè come Dio “liberatore”, colui che fa alleanza e che dona misericordia.
Cerco il tuo volto!
Tra i diversi testi d’intercessione spicca la preghiera a favore del popolo che è caduto nel peccato idolatrico (cf. Es 32-33). La costruzione del vitello d’oro mette a dura prova la pazienza di Dio. Mentre Mosè è impegnato sul Sinai, la comunità israelitica ai piedi della montagna decide di rinnegare la promessa della liberazione e della terra, per adorare un idolo e pretendere di averlo come guida sicura. Il racconto evidenzia il conflitto tra due diversi culti, due modi antitetici di concepire la preghiera e il rapporto con Dio. Da una parte il popolo si abbandona a riti orgiastici costruendosi un idolo, dall’altra Mosè vive un’autentica esperienza di preghiera nascosta in Dio. Egli è presentato come prototipo dell’uomo orante, che contempla Yhwh e lo incontra “come un uomo parlerebbe con il suo amico” (Es 33,11). In tale contesto Mosè chiede di contemplare la gloria di Dio: “Mostrami la tua gloria!” (Es 33,18). Il Signore gli concede un’esperienza contemplativa singolare, ma non gli permetterà di entrare nel mistero della Sua Gloria “perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. L’intero itinerario dei quarant’anni nel deserto definisce l’identità di Mosè e la sua maturità di fede. Egli morirà davanti alla Terra promessa senza potervi entrare, segno di una fede che rimane sempre in cammino verso Dio.