METTIAMO L’UOMO AL CENTRO
L’ecologia integrale assume una forte prospettiva sociale che si fonda sul riconoscimento della dignità umana e dei diritti umani fondamentali con una opzione preferenziale per i più poveri. Sostenibilità è un tema sempre più all’ordine del giorno. Come “resilienza”, parola evocata durante e dopo la pandemia. C’è chi la interpreta come attenzione all’ambiente e a non inquinare e chi invece, come la Chiesa, la include in una prospettiva più ampia che è quella dell’ecologia integrale. Una sintesi efficace e profonda è quella offerta da papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ del 2015 in cui il pontefice esorta ad adottare un approccio di ecologia integrale perché tutto è connesso. L’ecologia integrale comprende le interazioni tra l’ambiente naturale, la società e le sue culture, le istituzioni, l’economia. In questa interconnessione una attenzione particolare deve essere dedicata a restituire dignità agli esclusi prendendosi cura della natura. L’ecologia integrale – ecco la lettura “organica” offerta dalla dottrina sociale della Chiesa – assume una forte prospettiva sociale che si fonda sul riconoscimento della dignità umana e dei diritti umani fondamentali con una opzione preferenziale per i più poveri. Ciò significa porre al centro il protagonismo dei popoli e delle culture locali, e subordinare la proprietà privata alla destinazione universale dei beni. L’ecologia integrale ha quindi al suo centro l’adozione del principio del bene comune che implica amministrazione dell’ambiente, bene collettivo a beneficio di tutti, pace sociale e giustizia distributiva, solidarietà a favore dei più poveri e rispetto alle generazioni future. Infine, essenziale è l’adozione di un atteggiamento del cuore per vivere in armonia con il creato: “L’ecologia – scrive papa Francesco – studia le relazioni tra gli organismi viventi e l’ambiente in cui si sviluppano. Essa esige anche di fermarsi a pensare e a discutere sulle condizioni di vita e di sopravvivenza di una società, con l’onestà di mettere in dubbio modelli di sviluppo, produzione e consumo. Non è superfluo insistere ulteriormente sul fatto che tutto è connesso”.
Istituzioni e aziende giudicate
“sensibili” alla questione ambientale
Il primo innesco parte sempre dalle abitudini della vita quotidiana. Per questo ESG Culture Lab, Osservatorio sul valore del capitale umano nella trasformazione sostenibile, creato da Eikon Strategic Consulting Italia, ha realizzato la prima indagine nazionale “La cultura della sostenibilità in Italia”. L’indagine ha riguardato un campione rappresentativo della popolazione italiana di 1.600 persone, tra i 18 e i 65 anni. È stato utilizzato un questionario narrativo adatto a rilevare gli atteggiamenti spontanei e meno consapevoli.
Il risultato migliore si registra sul livello di coinvolgimento personale: il 75% delle risposte racconta un atteggiamento proattivo e impegnato verso gli obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale che investono la vita quotidiana.
Stessa tendenza, anche se con una percentuale più bassa (58%), è evidente nei giudizi delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti in ambito professionale. Nella valutazione sul coinvolgimento della propria azienda o organizzazione si conferma una percezione positiva (62%), anche se emerge una polarizzazione tra il 31% che giudica la propria azienda “focalizzata” sugli obiettivi e un 20% che la descrive “indifferente”. Il dato sull’indifferenza fa il paio con il giudizio sul coinvolgimento delle istituzioni, che il campione intervistato considera meno virtuose. “Pensare che ci sia un patrimonio di fiducia verso il futuro e lo sviluppo sostenibile. Questo è importante in questo momento di post-pandemia”, ha detto Cristina Cenci, antropologa e senior partner Eikon Strategic Consulting.
Nell’area sociale e di governance, positiva, per le aziende, la valutazione della qualità della formazione continua e dell’innovazione tecnologica. Critici i giudizi sulle pari opportunità di carriera, soprattutto da parte del campione femminile. Per le istituzioni emergono le valutazioni critiche dei più giovani in relazione all’attenzione verso l’occupazione. In tutta la ricerca è forte la polarizzazione dei giudizi tra under 30 e over 50: emerge una sfiducia delle fasce più giovani che si aspettano da aziende e istituzioni un maggiore coinvolgimento.
“Eikon Strategic Consulting Italia – ha detto Paola Aragno, docente di Metriche della Comunicazione all’università Lumsa di Roma – monitora da molti anni la reputazione di aziende e istituzioni nei media tradizionali e online. Abbiamo visto crescere in modo significativo i riferimenti alla sostenibilità, quasi sempre però associata agli aspetti ambientali. Da qui è nata l’idea di lanciare un ESG Culture Lab, con l’obiettivo di riportare al centro della discussione il capitale umano. È essenziale coinvolgere le persone in un modello di sviluppo che ha un impatto significativo sugli stili di vita, di consumo e di produzione di ognuno di noi. In questo scenario aziende e Istituzioni hanno davanti una sfida importante: contribuire a creare una cultura della sostenibilità condivisa e inclusiva che investa anche i nostri comportamenti quotidiani”.
Quando si parla di ambiente, i giudizi in generale migliorano sia per le aziende che per le istituzioni. “L’inda-gine – ha spiegato ancora Cenci – ha fatto emergere atteggiamenti e giudizi positivi che raccontano un sistema Paese sulla rotta giusta verso la sostenibilità. È un bel risultato, dobbiamo però anche inquadrarlo nel contesto che stiamo attraversando. Siamo in un post pandemia che ha gravi criticità, ma nello stesso tempo vede una voglia di rinascita dopo la grande paura. È una finestra di ottimismo che rischia però di durare poco, se non trova poi conferme nella realtà. Abbiamo avuto la fortuna di fotografare questo momento, ma non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi. Se, come crede più di un terzo dei partecipanti alla ricerca, il futuro non accade, ma si costruisce, siamo tutti chiamati ad impegnarci, ma aziende e istituzioni hanno la responsabilità di non dissipare questo patrimonio di fiducia”.
I risultati deludenti di Cop27
Su questo tema, globale e locale, politico e personale s’intrecciano inevitabilmente. E se da un lato la consapevolezza delle persone verso la custodia della “casa comune”, per usare un’altra espressione cara a papa Francesco, è in sensibile aumento, a livello geopolitico e di governi la situazione è molto più complessa e anche le decisioni vengono prese più lentamente e risentono della logica dei veti incrociati.
Alla Cop27, il summit che a metà novembre si è tenuto a Sharm el-Sheikh, in Egitto, dove hanno partecipato duecento Paesi, migliaia di delegati di governi, istituzioni internazionali e Ong, ma anche scienziati e giornalisti, non ci sono stati grossi progressi rispetto alla Cop26 di Glasgow dell’anno scorso sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Il documento finale approvato dal vertice ha deluso infatti gli Stati che volevano un aumento degli impegni di mitigazione del cambiamento climatico, cioè di riduzione delle emissioni di gas serra. Unione europea e Usa in primis, ma anche un’ottantina di paesi che a Sharm si erano detti favorevoli all’eliminazione dei combustibili fossili, e gli stati insulari che rischiano di finire sott’acqua. La Cop27 ha salvato l’impegno preso a Glasgow l’anno scorso di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi dai livelli pre-industriali. Ma poi ha indebolito tutti gli strumenti per arrivare a questo risultato: neanche una parola sui combustibili fossili; riduzione e non eliminazione della produzione di elettricità a carbone; eliminazione dei sussidi alle fonti fossili, ma solo di quelli “inefficienti”; gas insieme alle rinnovabili come “fonte energetica del futuro”. “Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora, e questo è un tema che questa Cop non ha affrontato”, ha commentato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, “abbiamo trattato alcuni sintomi, ma non curato il paziente dalla febbre”.
La novità principale è la decisione di istituire un fondo ad hoc per i ristori delle perdite (cioè i morti) e i danni del riscaldamento globale nei paesi più poveri e vulnerabili. Gli stati nomineranno un Comitato transitorio che preparerà un progetto da presentare alla Cop28 del prossimo anno, a Dubai, con l’obiettivo di approvarlo e farlo entrare in funzione per quella data. Era la richiesta principale alla conferenza dei paesi emergenti e in via di sviluppo del G77+Cina, sostenuta dalla presidenza egiziana. Stati Uniti e Unione europea non volevano il fondo, ritenuto troppo oneroso e complicato, e preferivano aggiornare gli strumenti esistenti. Ma di fronte alla posizione ferma dei G77, abilmente guidati dalla Cina, la Ue ha ceduto, e gli Stati Uniti le sono andati dietro. L’Unione è riuscita a imporre che il fondo abbia una base ampia di donatori (quindi anche la Cina, che si considera ancora paese in via di sviluppo) e che i soldi vadano solo alle nazioni più vulnerabili, non a chiunque. In plenaria la ministra pakistana del clima, Sherry Rehman, parlando a nome del G77+Cina, ha detto euforica che “il fondo per i loss and damage non è carità, ma un investimento nel futuro e nella giustizia climatica”.