MENO CHIACCHIERE E PIÙ SOLDI

L’Italia investe troppo poco in ricerca pubblica
By Antonio Andreucci
Pubblicato il 31 Marzo 2021

Prima lo sapevano in pochi, ogni tanto una notizia agli onori della cronaca per qualche Nobel, ma solo la pandemia ha fatto capire all’italico popolo quanto sia importante la ricerca scientifica e quanto siano bravi i nostri ricercatori, costretti a riparare all’estero per poter lavorare. Ma com’è possibile che i ricercatori non trovino posto in casa e siano costretti a rimanere “appesi” agli altri per i vaccini e la loro produzione? La risposta è negli investimenti che riguardano il settore: sono bassi, troppo bassi. Il fatto è che un’attività importantissima come questa non trova l’attenzione né della gente, né – cosa ancora più grave – dei governanti che nelle leggi di bilancio hanno il braccino corto per gli stanziamenti.

Vediamo come stiamo messi a livello europeo e mondiale. Nella Ue occupiamo il tredicesimo posto per numero di laureati e dottorati nelle discipline scientifiche, anche se si registra un lieve miglioramento nel rapporto uomo/donna. Le cose peggiorano quando il paragone si allarga al mondo intero. Allora scendiamo di 5 posti e ci posizioniamo dietro a nazioni che sotto tanti altri profili ci guardano con invidia: Argentina, Lettonia, Lituania, Islanda, Romania. Le cose peggiorano se guardiamo la spesa per la ricerca: siamo ventisettesimi, eppure i nostri ricercatori sono bravi e stimati, dato che, come risultati, saliamo all’ottavo posto. Insomma, una situazione in chiaroscuro. Così emerge dal quindicesimo Annuario Scienza Tecnologia e Società, curato da Giuseppe Pellegrini e Andrea Rubin (il Mulino), nel quale si fa il punto sulla cultura scientifica e la sua percezione pubblica in Italia e nel mondo. L’andamento degli indicatori scelti dall’Annuario mostrano che, complessivamente, negli ultimi periodi il trend è leggermente positivo: diminuisce il cosiddetto analfabetismo scientifico mentre migliora la sensibilità ai problemi dell’ambiente e cresce il desiderio di informazione scientifica nei media tradizionali classici. Però, a fronte dei nostri piccoli passi in avanti ci sono paesi che ne compiono di grandi. Ecco perché non riusciamo a risalire le posizioni.

Nella classifica di chi mette più soldi in Ricerca & Sviluppo rispetto al Pil (escluse le spese per la difesa che in alcuni stati letteralmente divorano i bilanci) non stiamo soltanto dietro a Israele, Corea, Taiwan o Germania, ma anche dietro a Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria. La quota che destiniamo al settore (meglio: al futuro, perché da lì passa il rilancio) è solo dell’1,4 per cento del nostro Prodotto interno lordo, inferiore alla media europea (2,0%) e a quella Ocse: 2,4%. Un dato bassissimo rispetto a quelli di Danimarca, Germania o Austria le quali investono il doppio. Addirittura umiliante rispetto a Israele che, già in vetta nove anni fa, ha dato agli stanziamenti un altro colpo di acceleratore salendo al 4,9% del Pil. Il triplo di noi. Si spiega anche così il fatto che questa nazione si è dimostrata la più reattiva in quanto ai vaccini.

L’Italia investe troppo poco in ricerca pubblica: 150 euro per ogni cittadino contro i 250 o i 400 euro rispettivamente della Francia e della Germania. In termini di frazione del Pil, si tratta dello 0.5% in Italia, a fronte dello 0.75% e dell’1% di Francia e Germania. Di conseguenza i ricercatori pubblici sono circa 75.000 in Italia contro i 110.000 della Francia e i 160.000 della Germania. In quanto a numero di ricercatori impiegati ogni mille occupati, è in testa la Danimarca con 15,7, seguita da Corea, Svezia, Finlandia. Noi ci troviamo a un terzo: 6 su mille, sotto alla media Ue e dell’Ocse o della Slovacchia.

In questo senso entra in ballo il supporto determinante delle università che da noi sono un po’ in ritardo per consentire ai nostri ricercatori di battersela alla pari con gli altri. Il nostro sistema universitario non ne esce bene. Nessuno degli atenei italiani è incluso tra i migliori dieci del mondo. Al vertice troviamo l’università di Harvard seguita da Stanford, entrambe negli Stati Uniti, terza Cambridge nel Regno Unito, che è anche la prima in Europa, seguita da Oxford (sempre Gran Bretagna). Sul sito del World University Ranking 2019 la prima italiana si trova al 153/o posto, la Scuola Sant’Anna di Pisa, poi la Normale di Pisa (161), seguita dall’università di Padova e San Raffaele di Milano (appaiate insieme al 201/o posto). Le cose non vanno meglio se si parla di aziende. Premesso che tra i dieci settori tecnologici più innovativi primeggiano la comunicazione digitale, l’informatica, il settore energetico, la strumentazione medica e i trasporti, nessuna azienda italiana ottiene un posto tra le dieci aziende più innovative del mondo. Sul podio c’è la Huawei (Cina), seguita da Mitsubishi (Giappone) e Intel (Stati Uniti); in coda, nono e decimo posto, si trovano due europee: la svedese Ericsson e la tedesca Bosch (il paese più innovativo d’Europa è la Svezia, seguita da Finlandia e Danimarca, l’Italia è diciottesima). Noi siamo fuori graduatoria. Per la cronaca, nella particolare classifica “casalinga”, al primo posto c’è la Solvay, poi Piaggio e Pirelli. L’Eni, che investe milioni in pubblicità, tanto da sembrare la più grande di tutte, è appena decima.

Come dicevamo all’inizio, i nostri ricercatori sono tra i migliori, tuttavia la loro intelligenza la sfruttano gli altri. Lo dimostra il progetto Horizon 2020, Programma Quadro della Ue per la ricerca e l’innovazione 2014-2020. Gli italiani sono quinti in Europa tra i paesi beneficiari di finanziamenti con oltre 4,5 miliardi di euro ricevuti e 13.020 partecipazioni ai progetti (dietro a Germania, Regno Unito, Francia e Spagna). Un risultato che sarebbe potuto essere migliore se i nostri giovani avessero avuto la possibilità di poter contare sull’aiuto di uffici di supporto al confezionamento dei progetti europei. Infatti, non è sufficiente avere un’idea buona: è necessario poterla tradurla in un progetto. Per colmare il divario occorrono tante cose: investire nella ricerca di base, fonte primaria dell’innovazione; nelle società tecnologiche avanzate. È necessario che gli investimenti in ricerca, specialmente quelli in capitale umano, siano moltiplicatori potenti di crescita e sviluppo socio-economico, a rendimento differito nel tempo, ma con effetti di lunga durata. Essere competitivi sul piano socio-economico ed essere competitivi nella ricerca sono circostanze che vanno insieme, di pari passo. Oggi c’è una maggiore consapevolezza del valore della ricerca, degli sforzi necessari da compiere, della fatica della scienza. L’opinione pubblica è più sensibile al problema. Occorre che lo siano anche coloro che hanno responsabilità politiche. Perché, detto terra-terra: ci vogliono i soldi.

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