“MAMMA NON HA VENDUTO IL SANGUE DI MIO PADRE…”

intervista a Francesco Viviano
By Gino Consorti
Pubblicato il 2 Novembre 2014

“L’ASSASSINO DI MIO PADRE – RICORDA IL FAMOSO GIORNALISTA SICILIANO AUTORE DEL BELLISSIMO LIBRO IO, KILLER MANCATO – DISSE A MIA MADRE, RIMASTA VEDOVA A 19 ANNI, CHE MI AVREBBE MANTENUTO AGLI STUDI… NONOSTANTE LO STATO DI GRANDE POVERTÀ IN CUI ERAVAMO, PERÒ, RIFIUTÒ L’OFFERTA MOSTRANDO UNA INCREDIBILE DIGNITÀ. IO, PERÒ, A 17 ANNI, DECISI DI VENDICARMI…” Da una parte la pistola puntata alla schiena dell’assassino di suo padre, dall’altra lo guardo tenero di un bambino abbracciato al collo dell’ignaro bersaglio del potenziale killer… Pochi attimi per diventare un omicida e segnare per sempre l’esistenza di quel bambino; pochi attimi per scacciare via l’odio e la vendetta lasciando in vita quel papà. E soprattutto pochi attimi per regalarsi una nuova esistenza. Tutto ciò ha affollato la mente di Francesco Viviano, oggi uno dei più bravi e invidiati cronisti italiani. Ieri, orfano a tredici mesi del padre Salvatore, ucciso a 22 anni mentre fuggiva, disarmato, dopo un tentato furto in una conceria. Un’infanzia di stenti e privazioni nella Palermo martoriata dalla mafia. In sette in una casa-stanza nel quartiere Albergheria, a pochi passi dalla piazza principale dello storico mercato di Ballarò. Lui, sua madre Enza, i nonni paterni, due sorelle e un fratello di suo padre. Siamo negli anni cinquanta, le ferite della seconda guerra mondiale sono ancora fresche e la famiglia Viviano, come tante, vive nella povertà assoluta. Nonostante tutto, però, con mille sacrifici sua mamma, rimasta vedova a 19 anni, analfabeta ma impregnata di orgoglio, caparbietà e rettitudine, era riuscita ad assicurargli un piatto di minestra e vestiti puliti. E soprattutto gli aveva trasmesso quei principi così difficili da difendere in una terra grondante ingannevoli luccichii e facili scorciatoie… Pur di assicurare un futuro diverso al suo unico figlio lei si spendeva quotidianamente in lavori umili e faticosi. Tant’è che Francesco fu l’unico in classe a non ricevere i libri gratuiti. Eppure la povertà della sua famiglia era certificata da un libretto comunale attraverso il quale, ogni mese, riceveva una piccola elemosina… A scuola, però, si presentava con scarpe e abiti puliti e gli insegnanti, all’oscuro della sua situazione e non avendo mai incontrato i genitori, credevano fosse figlio di un benestante… Ma a Francesco il padre glielo avevano ammazzato quando era ancora in fasce e sua madre lavorava giorno e notte fino al sabato. E la domenica le scuole erano chiuse… Questo raccontò la madre agli insegnanti quando andò a chiedere spiegazioni per la mancata assegnazione dei libri.

Con una mamma così impegnata a sbarcare il lunario, dunque, il giovane Francesco, inevitabilmente, trovò nella strada la sua compagna di vita. E poi c’era suo nonno, detto don Ciccio, una figura altrettanto forte e rispettata ma nello stesso tempo particolarmente amorevole nei suoi confronti. Gli ha voluto bene come un figlio e la sera, dopo il duro lavoro di muratore, lo portava in giro nelle osterie… Francesco Viviano, però, pur tra mille difficoltà è riuscito a cambiare verso a un destino che sembrava già segnato, diventando uno straordinario interprete del vero giornalismo. Scoop incredibili, inchieste penetranti, indagini di denuncia a tutto tondo, tutte cose che non dovrebbero mancare nella valigetta del bravo cronista. Far emergere, cioè, i problemi, denunciare il malaffare, essere curiosi su ogni cosa e soprattutto non guardare in faccia a nessuno. Tutto questo Francesco Viviano lo ha sempre fatto meritandosi riconoscimenti prestigiosi e facendo capitolare diverse teste illustri. Apprezzato inviato di guerra, ha seguito anche le rotte degli immigrati imbarcandosi sulle navi e costringendo le autorità italiane a far sbarcare sulle coste  tanti sopravvissuti. Indubbiamente l’infanzia trascorsa in strada gli ha sviluppato un fiuto particolare per la notizia, ma ciò che ha fatto la differenza è stata la voglia di andare  sempre e comunque oltre il semplice fatto.

Tutto questo e molto altro ancora – in pratica la sua vita – Francesco ha voluto raccontarlo nel bellissimo libro Io, killer mancato (postfazione di Attilio Bolzoni, Chiarelettere editore, pp.143, euro 14,00). Una narrazione appassionante che è molto più di una semplice autobiografia. Dentro, infatti, c’è un’incredibile vicenda umana, il ritratto di una Sicilia bella e contraddittoria dilaniata dalle guerre di mafia e dalle stragi di Falcone e Borsellino. E poi ancora il maxiprocesso, il ruolo dei pentiti, l’evoluzione di Cosa nostra e le prime rivelazioni sulla trattativa stato-mafia. Sin dalle prime righe si viene catturati, cresce l’attesa di voltare pagina, lo scritto scorre mirabilmente, a tratti commuove. Quindi, in un’apnea di emozioni e sensazioni si arriva, troppo presto, alla fine…

Incontro Francesco nel suo “rifugio” di Roma. Sulle pareti dell’appartamento campeggiano alcuni quadri d’ispirazione naïf che portano la firma di Gaspare Mutolo, un tempo uomo d’onore e braccio destro di Totò Riina, oggi pentito di mafia e sottoposto al programma di protezione. Li ha comperati da lui. Confesso di non essere un esperto di arte, ma quelle tele mi hanno colpito, trasmettono espressività. Oggi, però, sono qui per parlare di un altro genere di arte, quella di Francesco Viviano.

“A mia madre Enza che non ha voluto vendere il sangue di mio padre…”. Partiamo da questa bellissima testimonianza d’amore presente nelle prime pagine del libro. Cosa ha rappresentato lei per te?

Non avevo rapporti confidenziali, era una signora dal carattere forte e duro anche se con me è stata di una dolcezza incredibile. Rappresentava un faro, un comportamento di vita. Nonostante lo stato di povertà in cui vivevano non mi ha mai fatto mancare nulla, faceva sacrifici pazzeschi.

C’è qualcosa che avresti voluto dirle e che invece ti è rimasta dentro?

Lei era un tipo molto litigioso, pensa che per quasi vent’anni aveva tolto la parola a sua sorella, nostra vicina di casa, per via di un rampicante che sporgeva nel nostro “territorio”… Era di una testa dura incredibile e spesso le ripetevo di essere più serena. È stata una donna che ha sempre sofferto, rimase orfana a cinque anni e le fu preclusa la scuola. Solo alla fine della sua vita ha recuperato una grande serenità. Mi viene ancora la pelle d’oca se penso a quella volta che, sul punto di morte, in ospedale chiamò il medico dicendogli che voleva presentargli suo figlio, un inviato de la Repubblica. La parola Repubblica la pronunciava con due r e due b… Era tanto felice di far sapere al medico di avere un figlio che nonostante tutto era riuscito a farcela.

A tuo padre, invece, cosa diresti se lo rincontrassi?

Intanto lo chiamerei papà, una parola che in vita non ho mai pronunciato… Cosa che mi è mancata tantissimo. Ho cinque figli e quando sento chiamarmi papà o papi sono felice…

Come pensi sarebbe andata la tua vita se lo avessi avuto al tuo fianco?

Me lo sono chiesto tante volte, però la risposta resta un punto interrogativo, non riesco proprio a immaginarmelo. Di sicuro, comunque, avrei voluto avere un padre, brutto o bello, cattivo o buono che fosse… Infatti ogni volta che vedevo un bambino con il papà stavo malissimo… Mi chiedevo continuamente quale fosse la mia colpa. Non avere la figura paterna, soprattutto in certi ambienti, ti fa partire svantaggiato…

A che età hai saputo che tuo padre era stato ammazzato?

Mia madre non mi aveva mai detto nulla. Quando avevo dieci anni mi portarono al cimitero per assistere alla traslazione della salma nell’ossario in quanto non avevamo una tomba. Fu così che vidi quel cranio traforato con in cima ancora un ciuffo nero di capelli… Eravamo io, mia madre e mia nonna, ricordo che restai particolarmente colpito da quella scena. Entrambe erano vestite di nero e al collo portavano un una piccola fotografia di mio padre in porcellana.

Come ti spiegarono la sua morte?

Dissero che era rimasto vittima di un incidente sul lavoro. Ovviamente essendo ancora piccolo quei buchi nel cranio non mi suscitarono alcun dubbio… La vera causa, invece, la scoprii frequentando mio nonno, soprannominato don Ciccio, al quale ero molto legato. Faceva il mastro muratore e a fine lavoro la sera mi portava con lui nelle bettole dell’Albergheria e di Ballarò… Lui si prendeva un quarto di vino mentre a me davano un bicchiere di passito…

Passito?

Ma non quello liquoroso, era una sorta di aranciata con il sapore di passito… In quei posti in qualche modo mi sentivo coccolato, mi chiamavano il “figlio della buonanima”… Un giorno, però, un tizio soprannominato “Ciccio spara spara” , che era con mio padre la sera che fu ammazzato, preso da un senso di colpa e credendo che conoscessi la storia di mio padre, cominciò ad accennarmi qualcosa. Io feci finta di sapere, in realtà ero all’oscuro di tutto. Continuai a frequentarlo fino a quando, una sera, mi raccontò tutto…

Quale fu il tuo primo pensiero?

Provai tanta rabbia per un giovane ucciso a 22 anni. Sicuramente aveva sbagliato, non doveva rubare, ma le circostanze della vita sono quelle che sono… Mio padre la prima volta che fu arrestato – l’unico documento che ho ritrovato di lui è un rapporto della polizia –  è perché aveva rubato alcune travi di legno…, a dimostrazione della povertà assoluta in cui vivevamo. Da quel giorno, dunque, cominciai a covare dentro un sentimento di rabbia e vendetta nei confronti dell’assassino. Quel sentimento, però, rimase tutto sommato sbiadito fino all’età di sedici anni…

Poi cosa accadde?

Frequentavo il terzo anno dell’istituto Nautico e il mio sogno era comandare una nave e scoprire il mondo. Alla fine di quell’anno, però, mia madre economicamente non ce la faceva più. Pur facendo la cameriera dalla mattina alla sera non riusciva a sostenere le mie spese. Mi disse, allora, che avrei dovuto abbandonare la scuola per trovarmi un lavoro. Mi crollò il mondo addosso, tutti i miei sogni svanirono in un attimo. Iniziai a fare di tutto, il muratore, il marmista, il pellicciaio, il commesso, il meccanico ma alla fine guadagnavo sempre quattro soldi. Fu allora che dentro di me montò una rabbia incredibile. Perché, mi domandai, devo avere questa vita? Cosa ho di diverso rispetto agli altri? Nel mio dna non c’è mica scritto killer, mafioso, rapinatore, scippatore… Decisi, allora, di vendicare mio padre e nello stesso tempo uccidere colui che, a mio avviso, mi aveva condannato a una simile esistenza…

In famiglia, però, non eri il solo a covare quel sentimento… Tuo nonno, il padre di tuo padre, voleva che fosse tua madre a vendicarlo…

Chiariamo subito che mio nonno non era un mafioso, era un malandrino ed è una cosa ben diversa. Quando mio padre morì i mafiosi dissero a mio nonno che non avrebbe potuto vendicarsi in quanto suo figlio aveva sbagliato andando a rubare. In pratica gli fu detto che se si fosse vendicato avrebbero ucciso il resto della sua famiglia. Inoltre avrebbe messo in pericolo anche la vita degli altri complici di mio padre. Allora chiese a mia madre di vendicarsi, a lei certamente non avrebbero potuto dire niente. Sarebbe stata la rabbia incontrollabile di una vedova…

Cosa rispose tua madre?

Il suo fu un rifiuto netto. Successivamente l’assassino di mio padre le propose di aiutarla, le disse che mi avrebbe mantenuto agli studi…

E lei?

Rifiutò l’offerta accompagnandola con una frase significativa: “Io non vendo il sangue di mio marito…”.

Arriviamo allora a quella mattina del 26 marzo 1966 quando all’età di 17 anni, con la pistola in pugno, eri pronto a mettere in atto il desiderio di vendetta…

Avevo scelto lo stesso giorno in cui era stato ammazzato mio padre…

Cosa bloccò quel dito sul grilletto?

Da “Ciccio spara spara” avevo saputo il nome dell’assassino, lo avevo pedinato acquisendo orari e spostamenti. Sapevo dove mio nonno nascondeva una vecchia Taurus, una pistola a tamburo con sei colpi, pesantissima. Lo aspettai sotto casa, pioveva. Con gli ombrelli che coprivano i volti era la condizione ideale… Gli arrivai di nascosto alle spalle, lui però portava in braccio un bambino di circa un anno…

Un imprevisto e nello stesso tempo una fortuna…

Proprio così. Il piccolo, con lo sguardo rivolto alle spalle di suo padre, mi guardava abbozzando quasi un sorriso. La pistola era già puntata con il cane armato… L’indice stava premendo il grilletto quando un flash illuminò la mia mente e il mio cuore. Cosa stai combinando? Stai ammazzando una persona e magari domani, questo bambino che porta in braccio, a sua volta si macchierà di un omicidio per vendicare suo padre… A quel punto ho abbassato il cane della pistola riponendola in tasca. Quindi mi sono allontanato senza che lui si accorgesse di nulla. In quegli attimi, però, l’espressione del piccolo era cambiata, stava per piangere…

Da quel giorno com’è cambiata la tua vita?

Ero sempre arrabbiato con il mondo, nel frattempo però, erano accadute alcune cose positive. Mia madre, che faceva le pulizie anche nella sede dell’agenzia giornalistica Ansa di Palermo, una mattina venne a trovarmi nel negozio di borse dove lavoravo. Stavo pulendo le vetrine con un foglio di giornale quando la vidi che piangeva di fronte a me… Chiesi al padrone il permesso di uscire e una volta fuori venni a sapere che erano lacrime di gioia: mi avevano assunto all’Ansa come fattorino. Si erano rivolti alla persona di più basso livello che frequentava la redazione per cercare un fattorino…

In cosa consisteva il tuo lavoro?

Andavo a comperare le sigarette ai giornalisti, consegnavo i giornali anche di notte, svolgevo i lavori più umili. Fu così che iniziai a frequentare l’ambiente giornalistico.

Il passo successivo quale fu?

Fui promosso telescriventista, in pratica copiavo gli scritti dei giornalisti che, inseriti in un lettore, arrivavano nelle varie redazioni italiane. In quell’edificio c’era anche la sede di Radio Stampa, un servizio che veniva utilizzato dai corrispondenti per inviare gli articoli ai giornali di appartenenza. In quel modo avevo l’opportunità di leggere le cronache dei corrispondenti e anche degli inviati di grandi quotidiani. Successivamente iniziai a scrivere per un settimanale sportivo che si chiamava Tutto ciclismo, diventai corrispondente siciliano per le cronache delle corse dilettantistiche. Tra l’altro, sapendo della passione per le due ruote del giudice Borsellino, chiesi alla Federazione di Palermo di nominarlo presidente dei giudici di gara. Incarico che accettò con grande soddisfazione.

Da lì è iniziata la tua brillante carriera nel mondo dell’informazione…

Nel periodo in cui ero telescriventista, essendo già sposato e padre di due figli, decisi di tornare a scuola per prendere finalmente il diploma da capitano. Avevo 24 anni, andavo a scuola fino alle due del pomeriggio per poi correre in redazione all’Ansa e ancora in quella di una importante televisione privata di Palermo, la più grande della Sicilia, che tra l’altro feci abbonare all’Ansa.

Tanti tuoi conoscenti e amici d’infanzia si sono arresi ai soldi facili entrando a far parte delle varie famiglie mafiose. Tu, invece, sei riuscito a capovolgere un destino che sembrava segnato…

Credo sia stata fortuna…

Sei mai finito nei guai?

Una volta dovevo prendere parte a una rapina insieme ai miei compagni. Il giorno prima, però, mi tirai indietro.

Paura?

No, ero cresciuto per strada e aveva imparato a non aver timore di nulla, i miei 15 anni ne valevano 30… Rinunciai perché se mi fosse accaduto qualcosa per mia madre, che viveva solo per assicurarmi un futuro migliore, sarebbe stata la fine. Il giorno della rapina ci fu un imprevisto e i miei compagni furono tutti arrestati. Probabilmente, col senno di poi, se ci fossi capitato la mia vita sarebbe cambiata radicalmente.

Quanto ti ha aiutato nel lavoro un’infanzia vissuta nel cuore nero della Sicilia tra mafiosi e illegalità?

Tantissimo, l’università della strada vale più di una scuola di giornalismo con giornate trascorse davanti a un computer elaborando comunicati stampa… Purtroppo, infatti, oggi l’informazione nell’80% dei casi è fornita dai comunicati stampa che arrivano da ogni parte. Prendi quello che ti danno senza andare oltre la notizia.

Invece?

A me ancora oggi, dopo quarant’anni di questo mestiere, piace girare per le strade scovando storie e magari, alcune, anche risolverle…

Come ti sei guadagnato la stima delle tue tante fonti?

Non le ho mai tradite, anche se qualche volta mi hanno dato notizie sballate… In tutto questo arco di tempo, poi, ho conosciuto persone che molti anni dopo hanno ricoperto incarichi importanti. Penso ad esempio allo scomparso Antonio Manganelli, conosciuto da semplice poliziotto, diventato mio grandissimo amico e, successivamente, capo della polizia.

Quante denunce e perquisizioni ti hanno causato i tuoi tanti scoop?

Almeno una sessantina per fughe di notizie… Dalla pubblicazione del segretissimo identikit di Provenzano alla scoperta della trattativa mafia-stato nel 1998…

Hai mai temuto per la tua vita?

Minacce ne ho avute, mi hanno bruciato la macchina, ho ricevuto telefonate strane, messaggi trasversali… Direi una bugia se rispondessi di no.

Perché Massimo, il figlio di Vito Ciancimino, pochi giorni prima dell’arresto di Bernardo Provenzano ti consegnò il suo testamento?

Avevo seguito le vicissitudini di suo padre, Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo arrestato per mafia, di conseguenza avevo conosciuto anche suo figlio Massimo. Così frequentando le udienze in tribunale di suo padre mi trovavo sempre accanto questo ragazzo un po’ chiacchierone ma molto espansivo e simpatico. Insomma un affabulatore. Lui, fidandosi, mi raccontò molte cose, come ad esempio l’identità di Provenzano che si faceva chiamare ingegnere Lo Verde. Questo ancor prima che informasse i magistrati… Sempre Massimo Ciancimino promise di darmi il famoso papello. Per oltre due anni, dunque, fui la sua ombra, pranzavamo e andavamo al bar insieme, era una frequentazione assidua con l’obiettivo di ottenere quanto mi aveva promesso. Poi, un giorno, stufo del suo temporeggiamento, lo minacciai di brutto verbalmente…

E lui?

Mi diede una sorta di testamento.

Cosa c’era scritto?

In caso gli fosse accaduto qualcosa il signor Francesco Viviano era autorizzato, con quella lettera, a presentarsi da un avvocato mister X, che tra l’altro conoscevo, e quindi acquisire tutti i documenti di suo padre Vito. Quella lettera l’ho conservata per tanto tempo rischiando tantissimo… Se infatti la mafia o gli apparati deviati dello stato avessero saputo che ero il destinatario del testamento del figlio di Vito Ciancimino, la mia vita sarebbe stata in grave pericolo…

Ma dalle tante perquisizioni subite come mai non è mai saltata fuori?

L’avevo consegnata a mio figlio che è giornalista Sky. Gli dissi di nasconderla in un posto che avrebbe dovuto conoscere solo lui… Successivamente, quando Massimo Ciancimino raccontò ai magistrati Di Matteo e Ingroia di avermi dato quel testamento, fui convocato in procura. In quell’incontro confermai quanto detto da Massimo e alcuni giorni dopo lo consegnai ai magistrati. La cosa strana di tutta questa vicenda, però, è che Massimo Ciancimino alcuni giorni prima dell’arresto di Provenzano mi disse di stare attento perché di lì a qualche giorno a Palermo sarebbe accaduto qualcosa di importante… Lui partì poco prima per una vacanza in Tunisia e ogni giorno mi chiamava chiedendo se ci fossero novità… Tre giorni dopo arrestarono Provenzano… Ancora oggi mi chiedo come potesse sapere in anticipo di quell’arresto eccellente.

Qual è lo scoop di cui sei più orgoglioso?

Ce ne sono molti, però quello che più mi riempie di gioia è l’aver riunito una famiglia in occasione di due sbarchi avvenuti lo scorso anno a Lampedusa.

E quello mancato che ti ha lasciato l’amaro in bocca?

La trattativa mafia-stato andata in scena successivamente, mi riferisco a quella condotta da Pier Luigi Vigna, il defunto procuratore nazionale antimafia che di nascosto andò a trovare in carcere alcuni boss mafiosi per tentare di farli dissociare. Questa storia, di cui conoscevo anche i minimi particolari, la raccontai a Peppe D’Avanzo, collega e grande amico. All’epoca era vice direttore de la Repubblica, ne eravamo a conoscenza solo noi e la tenemmo nascosta per diverso tempo. Prima di pubblicarla Peppe voleva avere tra le mani la lettera che il procuratore Vigna aveva scritto ai boss. Purtroppo non mi fu possibile recuperarla, ma avevamo tantissime altre prove. Un bel giorno, così, un altro collega, Francesco La Licata della Stampa di Torino, mi anticipò. Il giorno della pubblicazione piansi come un bambino…

Immagino che al tuo amico D’Avanzo fischiarono le orecchie…

Quello stesso giorno nella riunione di direzione, davanti al direttore Ezio Mauro e agli altri componenti, si prese la colpa di quel mancato scoop dicendo che da tempo avevo portato la notizia con diversi dettagli e particolari. Fu un gesto molto bello.

Che ricordo hai di Giovanni Falco-ne e Paolo Borsellino?

In quegli anni la Sicilia era un Vietnam… Ammazzavano tutti, magistrati, politici, poliziotti, carabinieri, giornalisti. Li ho conosciuti all’inizio delle loro attività. Frequentavo tutti i giorni il palazzo di giustizia di Palermo e con loro avevo un rapporto quotidiano. Erano personaggi di assoluto spessore, nulla a che vedere con chi oggi si atteggia a fare il Falcone o il Borsellino senza averne gli attributi… Erano uomini eccezionali e soprattutto facevano i processi. Falcone spesso è stato criticato per non aver arrestato Tizio o Caio… Se non c’erano elementi sufficienti lui non arrestava gratis…

Secondo te chi ha voluto la loro morte oggi è dietro le sbarre?

Sì, anche se ci possono essere delle convergenze parallele… In molti, infatti, volevano la loro morte. La valanga Buscetta che decapitò Cosa nostra, infatti, creò un danno devastante all’organizzazione mafiosa. Sicuramente i mandanti mafiosi e gli esecutori materiali sono in galera.

Della trattativa stato-mafia e degli ultimi sviluppi che idea hai?

È importante esaminare le cose nel tempo in cui accadono. In quel momento storico, proprio in occasione del funerale di Borsellino, Antonino Caponnetto, il capo dell’ufficio Istruzione, davanti alla bara di Borsellino disse pubblicamente : “Lo stato è finito, abbiamo perso”. Lo disse in lacrime. In quel momento storico, dunque, c’era un’Italia in ginocchio.

Quindi?

L’ondata di grande sdegno che colpì l’opinione pubblica per quelle due gravissime stragi spinse le forze dell’ordine a dare uno “scalpo” all’opinione pubblica e anche alla politica. Non ti nascondo che se fossi stato un carabiniere o un poliziotto sarei sceso a patti con il diavolo pur di arrestare Riina o Provenzano… Se poi hanno agito in malafede, il discorso cambia…

Perché hai deciso di raccontare la tua vita?

Ci pensavo da tanto, anche se non l’ho mai nascosta… L’ho fatto ora perché sono diventato grandicello… e perché voglio lasciare una testimonianza anche per i miei figli.

Immagino sapessero già del tuo passato…

Si, ma non nei dettagli. Non ho mai nascosto la mia origine, anzi li ho portati nei luoghi dove sono nato e dove ho trascorso la mia infanzia. Ho ancora parenti all’Albergheria. E poi, tornando al perché di questo libro, il 13 marzo del 2013, è accaduto qualcosa che mi ha spinto ad accelerare…

Cioè?

Mi hanno diagnosticato un cancro allo stomaco e sono stato operato d’urgenza. Ho capito, allora, che dovevo fare in fretta, non so quanto tempo possa ancora restarmi… Un anno, due, tre? Non lo so, sarà Dio a decidere quando…

Che rapporto hai con la fede?

Come vedi porto al collo tre ciondoli: un’ancora, una croce e un cuore. Tre simboli che rappresentano la speranza, la fede e la carità. Me li ha regalati mia madre quando ero piccolo e non li ho più tolti. Da ragazzo ero cantore nella chiesa del Villaggio Ruffini e partecipavo attivamente alle rappresentazioni della vita e la passione di Gesù Cristo. Ho sempre creduto in Dio e ci credo ancora. Non sono però un cattolico praticante, anche perché in qualche modo me l’hanno impedito…

A cosa ti riferisci?

Essendo un divorziato non mi sono potuto più accostare al sacramento della comunione. Confesso, però, che alcune volte l’ho presa lo stesso…

Senza dirlo al prete?

A volte a sua insaputa, altre, invece, come in occasione del matrimonio di mio figlio, con il suo benestare…

Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?

Alcuni giorni fa durante una trasmissione televisiva dove presentavano il mio libro. Hanno mandato in video alcune fotografie della mia famiglia, con mio padre ne ho solo una mentre mi tiene in braccio… Di colpo hanno messo la foto di mia madre e in quel momento mi sono commosso… Mio figlio Salvatore, il più grande, a fine trasmissione mi ha inviato un messaggio al telefono: “Avrei tanto voluto conoscere il nonno. Grande papà”. Mia figlia, la più piccola, mi ha invece scritto “Papi sono orgogliosa di te”. Queste semplici parole per me valgono più di qualunque altra cosa, di qualsiasi premio e riconoscimento giornalistico.

Qual è il tuo rimpianto più grande?

Di non aver dedicato più tempo a mia madre. Un mio grande cruccio è il fatto di non averla mai portata a Pompei. Era un suo grande desiderio e io non sono riuscito ad accontentarla.

Siamo alla fine della nostra chiacchierata, Francesco. Hai la possibilità di vedere esaudito un desiderio, in cambio, però, devi mettere qualcosa sul piatto…

Sulla bilancia potrei mettere la lealtà, la generosità e l’onestà. In cambio chiederei una vita serena e tranquilla per tutti i miei figli. Loro, oggi, rappresentano la mia unica preoccupazione…

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