Nel 2012 il famoso giornalista investigativo siciliano, autore insieme a Marco Lillo del libro I Re di Roma, aveva pubblicato sul settimanale l’Espresso un’indagine dettagliata dove svelava la presenza di “mafia capitale” e dei suoi numerosi affari. In tanti, però, si sono girati dall’altra parte mentre altri addirittura lo hanno osteggiato. Finito nel mirino della criminalità organizzata che ha già cercato di farlo fuori, oggi gira con la scorta continuando a denunciare il malaffare…
Ve l’avevo detto, anzi, l’avevo scritto anni fa… Potrebbe essere questa la risposta ai tanti scettici, tanto per usare un eufemismo, che non hanno creduto o non vogliono ancora credere a una capitale impigliata in una grande ragnatela del malaffare. Per dirla tutta, vittima di un’organizzazione mafiosa. Sì, Lirio Abbate, inviato de l’Espresso, uno dei giornalisti investigativi più apprezzati e vincitore di numerosi e prestigiosi premi per le sue inchieste e i suoi libri sulle mafie e le collusioni dei politici con i boss, potrebbe tranquillamente salire in cattedra e da “professore” redarguire chi non ha voluto credergli o addirittura lo ha contrastato.
Il 12 dicembre 2012 la copertina de l’Espresso, sotto quattro foto, titolava così: I quattro re di Roma. In pratica, con tre anni di anticipo rispetto all’azione giudiziaria, attraverso una dettagliata inchiesta giornalistica Lirio Abbate aveva svelato la presenza di “mafia capitale” puntando i fari sul potere del clan di Massimo Carminati, personaggio dominante, oggi agli onori della cronaca nera. “Carminati – scriveva Abbate – viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere i problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Le sue relazioni possono arrivare ovunque…”.
Queste e altre accuse pesanti mosse, all’epoca a personaggi in libertà, hanno fatto correre un rischio pazzesco al bravo giornalista siciliano, anche perché senza i successivi sviluppi giudiziari probabilmente sarebbe finito in un angolo, sia economicamente che professionalmente… Invece il suo fiuto eccezionale non lo ha tradito, le sue fonti si sono rivelate ancora una volta affidabili come anche il materiale raccolto. Alla fine, però, un prezzo lo ha dovuto comunque pagare… Le sue tante inchieste, figlie di un grande coraggio e di una straordinaria professionalità, oltre a inserirlo nella top dei 100 eroi dell’informazione del mondo e tra le 17 persone del pianeta che lottano per la libertà di espressione, hanno però messo di cattivo umore più di un destinatario… Di qui numerosi avvertimenti e minacce di morte, “guadagnandosi” un posto anche nella lista nera di Cosa nostra. Inevitabile, allora, finire sotto scorta. Per anni, infatti, ha raccontato le vicende delle grandi organizzazioni criminali, dalla mafia siciliana alla ’Ndrangheta; è stato l’unico giornalista presente sul luogo al momento della cattura del capomafia Bernardo Provenzano. E un anno dopo, nel 2007, ebbe salva la vita grazie all’intraprendenza e all’abilità di alcuni poliziotti che si occupavano della sua protezione, i quali riuscirono a sventare un attentato che Cosa nostra gli aveva preparato nei pressi della sua abitazione palermitana. Insomma, un cronista sotto assedio che però non ha mai voluto voltarsi dall’altra parte sottacendo ingiustizie, violenze e intimidazioni, i tre punti di forza del nuovo manuale del bravo mafioso… Nel corso degli anni, infatti, la mafia della coppola e della lupara ha lasciato il campo a un modello più “raffinato” ma nello stesso tempo più subdolo dove in primo piano c’è la politica come tramite del profitto. Ed è questo che Lirio Abbate ha portato a galla attraverso le sue inchieste investigative e l’interessante libro I Re di Roma (Chiarelettere, pp.272, euro 14,90) realizzato insieme a un altro brillante giornalista investigativo, Marco Lillo, caporedattore inchieste de il Fatto Quotidiano.
Fino agli anni 80 in Sicilia buona parte del tessuto sociale negava l’esistenza della mafia, addirittura magistrati esemplari come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone venivano osteggiati e accusati di becero protagonismo. Poi, però, il sangue e i cadaveri che hanno riempito strade e coscienze, hanno fatto sì che prendesse piede, poco alla volta, quella cultura antimafia che oggi ha fatto compiere un importante passo in avanti a questa bellissima terra che ha dato i natali a Sciascia e Pirandello. Sarebbe importante, allora, non commettere oggi, sul piano culturale, lo stesso errore nella valutazione di quanto emerso dalle due inchieste giudiziarie di mafia capitale. D’altra parte in questo nostro bellissimo e nello stesso tempo paradossale paese, se parli di cucina o fai gossip hai l’audience assicurato… Viceversa, l’argomento mafia porta a casa ben altri risultati… Ecco, allora, che dinanzi a una dilagante corruzione – i corrispondenti della stampa estera fanno ormai fatica a “vendere” nei loro paesi articoli e reportage sugli scandali italiani… – e a sistemi criminali organizzati per la spartizione di soldi e potere, non ci si può più voltare dall’altra parte. Quando sono gli stessi magistrati inquirenti a parlare di sistema mafioso, ovviamente supportati da indagini capillari e riscontri oggettivi, l’opinione pubblica, compresi i salotti intellettuali…, non può più balbettare, minimizzare o addirittura far finta di niente. Tantomeno un simile atteggiamento può permetterselo il mondo dell’informazione. Lirio Abbate, invece, con grande intelligenza, è riuscito a evitare che l’istinto della notizia prendesse il sopravvento sull’accuratezza e la scrupolosità, veri e propri fari guida per un giornalista. Egli ha mostrato un grande coraggio morale, qualità che dovrebbe appartenere a ogni giornalista. Chi ne è senza, infatti, è privo di tutto. Peccato, però, che il mondo giornalistico non abbia grande interesse a sviluppare un orgoglio di categoria che consentirebbe un lavoro d’insieme al servizio del bene comune.
Incontro Lirio a Roma, nell’affascinante capitale finita in questi giorni nell’occhio della cronaca. Purtroppo quella nera… Come gli capita ormai da anni si muove con i suoi “angeli custodi”, professionisti discreti ma nello stesso tempo scrupolosi. Non gli lasciano mai lo sguardo, un’ombra silenziosa e rassicurante. Anche durante la nostra chiacchierata restano vigili, ma ormai Lirio ci ha fatto l’abitudine…
Alla luce di quanto è emerso oggi a distanza di anni dalla tua inchiesta, provi più soddisfazione o amarezza per non essere stato creduto fino in fondo e addirittura screditato?
Da una parte sono contento perché ciò che avevo raccontato è stato provato giudiziariamente. Anche se con i tempi lunghi tipici della magistratura, oggi i fatti mi hanno dato ragione arrivando a una conclusione. Dall’altra, però, c’è amarezza in quanto in tutti questi anni la politica non ha mai preso le distanze da quelle persone che in quella copertina avevo indicato come i Re di Roma… Addirittura le intercettazioni hanno fatto vedere come ancora più persone si siano avvicinate a Carminati per concludere affari… Io, comunque, ho la coscienza pulita, ho fatto la mia parte e continuerò a farla. Altri, invece, non so…
Come ti spieghi tanta reticenza da parte del mondo della politica e di tanti salotti intellettuali nel riconoscere l’esistenza di un ramificato sistema mafioso nella capitale?
Forse perché dall’inchiesta vengono fuori nomi di persone di cui non osano immaginare una complicità con il clan di Carminati. E quindi ne parlano bene… Molti di questi nomi, magari, sono stati vicini a un certo ambiente di sinistra, a qualche intellettuale, a qualche giornalista per cui ora diventa maledettamente difficile ammettere di aver frequentato uomini della mafia… Altri ancora, invece, hanno vergogna di ammettere che a Roma c’è la mafia, o comunque questa organizzazione criminale. Il clan di Massimo Carminati, per fatti e dimensioni, non è certo Cosa nostra oppure la ’Ndrangheta, però è un clan mafioso a tutti gli effetti. Di conseguenza bisognerebbe prendere coscienza di ciò che oggi accade a Roma in modo da bloccare il tutto ed evitare che il fenomeno dilaghi.
Per quanto ti concerne tutto ha inizio nel marzo del 2102 con l’incontro in un albergo di Roma con una fonte interna al sistema mafioso… Cosa ti ha fatto capire di avere tra le mani una storia “esplosiva”?
Quando ho iniziato a riscontrare, documentalmente parlando, ciò che mi veniva raccontato. Ad esempio quando vedi che Carminati utilizza quotidianamente una Audi A1 intestata a Palombini, un’azienda molto importante e conosciuta di Roma, capisci che ci sono alcune cose che non vanno e che devono, quindi, essere inquadrate bene… Così ho cercato di approfondire al meglio il tutto sfruttando alcune fonti. Fortunatamente nessuna sapeva dell’esistenza delle altre, così sono riuscito a incrociare i dati e riscontrare diverse situazioni.
C’è stato un momento in cui hai pensato, magari dopo un confronto con il tuo direttore, che forse era meglio lasciar perdere?
No, fino a quando siamo usciti con l’Espresso e con quella copertina non c’era alcun segnale di pericolo. Successivamente, invece, le cose sono cambiate e sono iniziati ad arrivarmi segnali pericolosi…
Tipo?
Vari episodi intimidatori, tutti denunciati alla polizia. Vicende che lasciavano intuire qualcosa di poco piacevole… Attraverso alcune intercettazioni ho scoperto, poi, che c’erano persone che mi seguivano, in particolare degli albanesi. Quelle stesse persone che incontravano e abbracciavano Carminati, come successivamente ha documentato l’inchiesta. E poi invio di proiettili, auto rubate lasciate dinanzi l’ingresso della mia redazione, l’auto della scorta speronata, eccetera. Insomma, tanti episodi che hanno inevitabilmente alzato il livello di attenzione, con tutte le conseguenze negative.
Ci spieghi brevemente come funzionava il metodo Carminati?
Parliamo di un metodo forte basato sull’immagine violenta del soggetto che aveva in pugno la politica. E a sua volta la politica eseguiva i suoi ordini…
Salvatore Buzzi, invece, che ruolo aveva?
Era il braccio operativo. Con le sue cooperative otteneva tantissimi appalti a trattativa privata dal Comune…
Parliamo di rifiuti, emergenza case, immigrati: come dire, vere e proprie slot machine…
Facevano soldi con tutto e senza un minimo di risparmio da parte della pubblica amministrazione… Anzi, c’era una lievitazione di almeno il triplo dei costi…
Il misterioso furto avvenuto la notte del 16 luglio 1999 nel caveau della filiale della Banca di Roma all’interno del tribunale, dove oltre a soldi e gioielli erano custoditi tantissimi documenti, in che modo può essere legato alla vicenda di Mafia Capitale?
È una storia incredibile e nello stesso tempo è un grande neo, non solo per la giustizia, anche se gli autori del furto sono stati individuati. Per loro, però, si parla di furto e non invece di reati molto più gravi. Delle 900 cassette presenti solo 147 furono forzate e aperte… Massimo Carminati, successivamente condannato a una pena di quattro anni e mezzo di carcere per furto e corruzione, eseguì dunque una cernita delle cassette da aprire… E i proprietari, per la gran parte rappresentanti della magistratura romana, della classe forense e del personale di cancelleria, non hanno mai rivelato cosa ci fosse dentro. Insomma, un furto mirato. I titolari sono stati subito indennizzati dalla banca ma solo alcuni hanno detto che nelle cassette custodivano gioielli di famiglia.
Tra le tante circolate qual è l’ipotesi più convincente sul misterioso furto?
Qualcuno ha avanzato la tesi che Mas-simo Carminati abbia commesso il furto, con la complicità di alcuni compari, per accedere alle cassette di sicurezza di magistrati e avvocati e impossessarsi di documenti compromettenti al fine di ottenere protezione e restare lontano dalle indagini. Ovviamente stiamo parlando di voci in quanto non è stato mai trovato nulla. Per la cronaca è giusto ricordare che proprio in quel periodo stava per concludersi il processo in merito all’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, dal quale Carminati, accusato di esserne l’esecutore, ne uscì assolto.
Cos’è la teoria del cosiddetto “Mondo di mezzo” disegnato dal sistema mafioso e che ha dato il nome al nuovo filone d’inchiesta?
Il mondo di mezzo è Carminati che lo mette in collegamento con il mondo di sopra, rappresentato dai colletti bianchi, dalle terrazze romane. Il tutto per esaudire le loro richieste… Una sorta di cerniera tra l’illegalità e la legalità, tra i criminali di strada e uomini in doppiopetto.
Ma se c’è un mondo di sopra e uno di mezzo dev’esserci anche quello di sotto…
Certamente, ed è rappresentato dalla “manovalanza” che tira fuori le cosiddette castagne dal fuoco a chi abita nel mondo di sopra… È questa, in sintesi, la mafia romana. Per capirci quella che alle armi preferisce il denaro, che non spara ma corrompe, che non ha bisogno di rincorrere politici e imprenditori per fare affari e partecipare alla grande abbuffata degli appalti pubblici…
Nelle intercettazioni compaiono personaggi famosi, uno spaccato veramente avvilente e nello stesso tempo preoccupante…
Proprio così, persone insospettabili che dovrebbero dare l’esempio condannando chi ricorre a vie illegali. Io e Marco Lillo raccontando queste cose, pubblicando nomi e cognomi di campioni dello sport, gente dello spettacolo, del cinema e così via di fatto ci siamo bruciati tutto un mondo romano… Gente che non vede di buon occhio il nostro lavoro, che in qualche modo cerca addirittura di boicottarlo.
Ci spieghi perché l’immigrato rende più della droga?
Innanzitutto è un grande business dove il rischio penale è bassissimo rispetto a quello del traffico di droga. Spesso, inoltre, l’assistenza all’immigrazione nel nostro paese è gestita senza l’applicazione delle gare europee ma con semplici indagini di mercato. Ecco, allora, che basta creare una sorta di baraccopoli come aveva fatto Buzzi, ci metti dentro due servizi e lo stato ti riempie di soldi in quanto tu stai accogliendo l’immigrato… E non commetti alcun reato. Ovviamente devi oliare la macchina di chi porta dentro i tuoi centri gli immigrati che arrivano sulle coste siciliane o calabresi.
Come sottolinei nel libro in tutte le inchieste più importanti del 2014, Expo, Mose, Mafia Capitale, emergono tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Ma è così complicato, allora, trovare un rimedio? I nostri governanti possono sentirsi con la coscienza a posto?
Intanto mi piacerebbe sapere quanti di loro possono vantarne una… Sicuramente di coscienziosi ce ne sono, ma purtroppo non sono maggioranza… Oggi il vero pericolo del riciclaggio del denaro sporco, del finanziamento illecito ai partiti e del clientelismo si annida proprio nelle fondazioni. Per cambiare la legge sulle fondazioni, però, c’è bisogno dei politici… Ma quanti sono attualmente i politici che hanno una fondazione? Tanti… Credi, allora, che sarebbero disposti a fare una legge che li penalizzerebbe? Chi tra destra, centro e sinistra ha il coraggio di cambiare le cose?
In effetti non si capisce a cosa serve aumentare le pene minime, come ha fatto recentemente il governo Renzi, se poi non si “bonificano”, attraverso la massima trasparenza, le fondazioni, le municipalizzate e il sistema cooperativo…
Il nocciolo del problema è proprio questo. A mio avviso si dovrebbero mettere in campo provvedimenti che vietino, ad esempio, a chi si lascia corrompere di rimettere piede in un’amministrazione pubblica. Il dirigente o l’impiegato che in qualche modo è accusato di corruzione non dovrebbe più avere la possibilità di tornare a esercitare quel tipo di lavoro. Invece nel 90% dei casi questa gente torna ad occupare lo stesso posto. Così ti ritrovi un dipendente condannato per corruzione a svolgere tranquillamente le sue mansioni…
A tuo avviso quali altri sviluppi ci riserverà la seconda tranche dell’inchiesta?
Sinceramente non saprei, però analizzando il contenuto delle intercettazioni e le carte dove compaiono persone che al momento sono ancora fuori dall’inchiesta ma sono chiari loro ruolo e responsabilità penali, credo che qualche altra sorpresa uscirà… Sicuramente la procura sta facendo un ottimo lavoro, come anche gli investigatori.
Da siciliano e stimato giornalista investigativo conoscitore della criminalità organizzata, quali analogie e differenze cogli tra le due mafie?
Mafia capitale fa paura perché è nota la violenza di cui sono capaci Carminati e i suoi uomini. Ci sono delle intercettazioni che dimostrano come politici e imprenditori vengano intimiditi dal clan. Questa mafia fa più paura perché riesce a inquinare con grande facilità la democrazia nel nostro paese.
A cosa ti riferisci in particolare?
Oggi il consiglio comunale e quello regionale rappresentano le due stazioni appaltanti più importanti nel nostro paese. Da lì, infatti, arrivano gli appalti e i soldi alle imprese. Il parlamento può indirizzare alcune leggi ma il deputato di turno non realizza l’appalto, a quello ci pensa il funzionario regionale o comunale, oppure il politico. In Sicilia e in Calabria ci sono delle regole – purtroppo le mafie hanno anche delle regole – qui, invece, le regole potrebbero saltare da un momento all’altro in quanto siamo in presenza di vere e proprie schegge impazzite. Questa è una mafia gommosa, mutabile, si trasforma, non è più quella della coppola e la lupara…
Qualora ce ne fosse ancora bisogno, l’intera inchiesta rende merito all’importanza vitale delle intercettazioni telefoniche. Uno strumento che invece qualcuno vorrebbe sotterrare…
Quando c’è qualcosa che tocca i politici subito ci si mette le mani, o quanto meno ci si prova… Il discorso vale anche per il tentativo di imbavagliare l’informazione, il cui ruolo potrebbe causare non pochi problemi… Mi riferisco anche al fatto di raccontare storie che magari non sono penalmente rilevanti ma che hanno un grande valore morale o un rilievo sociale. Senza dubbio l’intercettazione è basilare per un’indagine sulle mafie, ti svela dall’interno ciò che altri non potrebbero mai fare…
Ovviamente da sole le intercettazioni non bastano, occorrono infatti anche un gruppo investigativo valido e magistrati capaci di vedere dove altri non riescono a guardare… E naturalmente una stampa libera…
Assolutamente d’accordo, ci vuole un grosso lavoro d’insieme altrimenti non si va da nessuna parte.
Nel 2013 e nel 2014 in Sicilia si sono registrati due soli omicidi di mafia. Che lettura dai a questo dato sorprendente?
Che la mafia si è trasformata, è cambiata. La trasformazione inizia già nel 1992 quando Cosa nostra si rende conto che le stragi hanno portato a un disfacimento dell’organizzazione. In pratica si erano attirati addosso molti problemi.
A cosa ti riferisci?
All’arresto di tanti latitanti, la confisca dei beni, eccetera. E poi la gente si è svegliata. L’omicidio, si sa, suscita una presa di coscienza che solitamente non si ha, c’è il fattore emotivo che viene fuori. Di conseguenza ha cambiato strategia intuendo che avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati inquinando meglio la politica… In un certo senso oggi vivono di rendita sventolando sullo sfondo il periodo stragista e dei tanti omicidi… Vivono di quella immagine criminale e pericolosa che si sono costruiti negli anni.
Tu sei stato più volte vittima di minacce di morte, avvertimenti e anche di alcuni tentativi di attentati fortunatamente andati a vuoto. Ma come fa un cronista investigativo a svolgere il proprio mestiere girando con tanto di scorta al seguito? Quale fonte o confidente può accettare di incontrarti…?
All’inizio è stato difficilissimo, anzi praticamente non riuscivo più a fare il mio lavoro… Adesso ho trovato un modo in cui riesco lo stesso a tirare fuori notizie importanti. Sicuramente questa cosa mi ha cambiato la vita.
Oggi cosa ti fa più paura?
Temo che tutti questi sacrifici possano essere vani.
In particolare a cosa ti riferisci?
Alla sensibilizzazione della società civile.
Paolo Borsellino, riferendosi al suo iniziale rapporto conflittuale con Palermo, diceva che il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare… Qual è il vero amore di Lirio Abbate?
Sono tante cose messe insieme, non ce n’è una sola. Penso, ad esempio, alla guerra civile che noi siciliani abbiamo vissuto e che ha causato tante morti di gente che lottava per la libertà, per una democrazia veramente libera. L’amore è per queste vittime affinché il loro sacrificio non resti vano.
Oggi il giornalismo investigativo è sempre più merce rara, soprattutto quando di mezzo ci sono le organizzazioni criminali. Ritieni sia colpa dei giornalisti oppure degli editori?
È colpa del mercato e a seguire degli editori. Ce ne sono pochissimi, infatti, disposti a puntare su questo tipo di informazione, a investire su un gruppo di giornalisti investigativi che, si sa, per portare a casa un’inchiesta corposa potrebbe metterci anche alcuni mesi… Oggi con i tanti mezzi d’informazione a disposizione e con le notizie che si rincorrono e che diventano “vecchie” nello spazio di pochi minuti, siamo abituati ai flash, a notizie brevi, ai titoli. In tanti, allora, puntano su ciò che è più sbrigativo e immediato rispetto a un approfondimento o a un’inchiesta. Quando però ci sono editori come il mio, e non lo dico per piaggeria, o come altri che ci credono fortemente, alla fine vengono fuori lavori importanti che rivalutano i giornalisti e la professione.
A proposito di professione, cos’è per te la liberta d’espressione?
Poter raccontare le cose documentandole. Senza diffamare o oltraggiare. Se hai un fatto che ha rilevanza sociale devi raccontarlo con documenti alla mano.
Questo incredibile scoop quale riflessione professionale ti ha suscitato?
Che la nostra categoria dovrebbe essere più unita… Spesso, infatti, cadiamo nelle faide, nell’invidia, procurandoci del male da soli… Se infatti, ad esempio, sostenessimo il lavoro valido di un collega a beneficiarne sarebbe l’intera categoria….
Chiudiamo con un argomento di grande attualità: cosa ne pensi del caso del governatore della Campania Vincenzo De Luca?
La politica dovrebbe guardare più a un aspetto personale che giudiziario. Si sa benissimo, infatti, se una persona è pulita oppure no, al di là del suo casellario giudiziario… Se poi addirittura ci sono delle sentenze non puoi fare altro che rispettarle fino in fondo e applicarle. Nel caso specifico, allora, Renzi non avrebbe dovuto sostenere De Luca, proprio per essere coerente con quello che va dicendo in giro sulla legalità, sulla lotta alla mafia, eccetera. Se tu infatti appoggi una persona che per sentenza è ineleggibile non puoi più pretendere che le persone ti credano quando affronti altri argomenti e altre realtà. Ma su De Luca avremo ancora molto altro da leggere. E da scrivere…