L’UCRAINA IN RIVOLTA
Chissà come andrà a finire questa volta, in una Ucraina che ribolle di indignazione perché si allontana la speranza di agganciarsi all’Europa. Nell’altra occasione, nove anni fa, si trattava di un esercito di oppositori (la “rivoluzione arancione”) che protestavano per manipolazioni elettorali messe in atto dal partito dell’attuale presidente, Viktor Yanukovich. Dopo settimane di pacifico assedio alle stanze del potere (non ci fu neppure un morto, pochi i feriti), Yanukovich gettò la spugna e si indissero nuove elezioni che fecero vincere l’altro Viktor, Yushenko, affiancato dalla celebre treccia bionda di Yulia Timoshenko. Ma la ruota gira e il nuovo governo non si rivelò migliore del precedente, sino a quando fu riportato alla presidenza (anche in questo caso col sospetto di gravi brogli) il redivivo Yanukovich.
Ma questa volta la situazione è diversa. Nel 2004 non c’era ancora saldamente al potere come oggi, nella vicina Russia, Vladimir Putin che, da allora, ha praticato una strategia di recupero attorno a Mosca delle antiche repubbliche che facevano parte dell’Urss; con qualche successo, bisogna ammetterlo, anche se ottenuto con mezzi che, in qualche modo, ricordano le pratiche staliniane, cioè ricatti, minacce o compravendita. In quella strategia l’Ucraina ricopre un ruolo importante perché, nella logica dell’impero putiniano, si insinua come un cuneo nell’U-nione Europea; senza Kiev, il disegno del Cremlino perde molta della sua forza.
Yanukovich, nei tre anni dal ritorno al governo, ha perseguitato con molta durezza gli avversari interni, come si sa dal processo farsa intentato contro la Timoshenko, finito con una condanna a parecchi anni di reclusione, e da analoghi provvedimenti contro altri oppositori. Ha creduto anche di giocare sui due tavoli di una richiesta di associazione all’Europa (in vista di un futuro ingresso nell’Unione) e nello stesso tempo di un rapporto privilegiato con la Russia. Ma Putin non glielo ha permesso, gettando brutalmente sul tavolo le forniture di idrocarburi a basso costo: e Kiev senza quelle fonti energetiche va a rotoli.
A questo punto si è rotto l’equilibrio. Era stato negoziato un accordo di associazione con l’Ue e lo si stava portando alla firma quando, improvvisamente, l’intesa non è stata sottoscritta dal governo di Kiev (non è un mistero che ciò sia avvenuto dietro pressioni di Mosca). Ma gli ucraini, che già assaporavano l’ipotesi di un ingresso, sia pure futuro, in Europa, non l’hanno mandata giù. Con la stessa determinazione di nove anni fa sono scesi in piazza sia in nome della differenza (“non vogliamo essere russi”, dicono molti slogan), sia per la rabbia di una speranza tradita.
Ma oggi la rivolta sembra più seria e non si esclude che la violenza possa diffondersi, anche perché la repressione governativa si annuncia molto decisa. I quarantanove milioni di ucraini non sono tutti d’accordo con l’opposizione perché l’otto per cento della minoranza russofona (entro la quale si recluta una gran parte delle forze di polizia) preferisce il protettorato Mosca, che non vuole rinunciare alle importanti basi navali della Crimea sul Mar Nero, quasi a corrispettivo del gas e del petrolio a prezzi ridotti. L’opposizione non molla. Dalla prigione, Yulia Timoshenko continua a incoraggiare i suoi, affermando che rinuncia alla clausola, posta dagli europei, di una sua liberazione e che la sola cosa necessaria sia la firma dell’accordo. Il braccio di ferro, secondo gli esperti, è appena cominciato. Il rischio di un conflitto civile non è ancora evitato.