LISTE D’ATTESA? ASPETTA E SPERA…
La situazione, peggiorata con la pandemia, ha visto il rinvio di milioni di visite e interventi chirurgici, costringendo i pazienti a rinunciare a programmi di prevenzione e di accesso alle cure ordinarie. In questo quadro fosco spiccano l’assenza di personale e macchinari obsoleti
Una mammografia? Torni l’anno prossimo. Un’ecografia, una tac? Altrettanto. Oppure due-tre-quattro mesi e oltre, a seconda delle 225 aziende sanitarie sparse sull’italico suolo. Questi sono i tempi della sanità pubblica. Prendere o lasciare. Altrimenti c’è la sanità privata, nella quale i tempi sono ridottissimi. Le visite specialistiche sono sempre state la criticità dell’assistenza sanitaria pubblica. Lo era prima dell’emergenza Covid-19 ed è peggiorata perché durante la pandemia – ancora in atto! – l’assistenza ha giocoforza “trasferito” altrove le risorse, rinviando milioni di visite e interventi chirurgici, costringendo i pazienti a rinunciare a programmi di prevenzione e di accesso alle cure ordinarie. C’è un arretrato spaventoso. Occorre recuperare milioni di prestazioni e in questo quadro fosco spicca l’assenza di personale: mancano migliaia di medici e infermieri. Senza considerare che spesso le apparecchiature del Servizio nazionale sono obsolete.
Analizzando le migliaia di segnalazioni giunte ai suoi sportelli, la Onlus Cittadinanzattiva ha elaborato il Rapporto civico sulla salute 2022. I diritti dei cittadini e il federalismo sanitario, che conferma quanto ognuno di noi ha potuto sperimentare sulla propria pelle. Le liste d’attesa durante l’emergenza hanno rappresentato il problema principale per i cittadini, in particolare per i più fragili, che di fatto non sono riusciti ad accedere alle prestazioni. I lunghi tempi di attesa (il 71,2 per cento delle segnalazioni di difficoltà di accesso) sono riferiti nel 53,1% di casi agli interventi chirurgici e agli esami diagnostici, nel 51% alle visite di controllo e nel 46,9% alle prime visite specialistiche. Seguono le liste d’attesa per la riabilitazione (32,7) per i ricoveri (30,6) e quelle per attivare le cure domiciliari-Adi (26,5) e l’assistenza riabilitativa domiciliare (24,4). Con la sospensione durante l’emergenza delle cure non essenziali e non “salva vita”, si sono allungati notevolmente i tempi di attesa di alcune prestazioni. Tutto ciò si è inserito in una situazione che era “disperata” già nel periodo pre-pandemico. Infatti – secondo le analisi di Corte dei Conti e Agenas-Sant’Anna di Pisa – per quel che riguarda la specialistica ambulatoriale si è assistito a una riduzione complessiva fra 2019 e 2020 di oltre 144,5 milioni di prestazioni, per un valore di 2,1 miliardi; il volume dei ricoveri totali erogati (ordinari e in DH) nelle strutture pubbliche o private si è ridotto di circa 1.775.000 prestazioni (mediamente, tra il 21 e il 26 per cento).
La soluzione più pratica per usufruire prima dell’attività specialistica, cioè visite ed esami diagnostici, è quella di rivolgersi alle strutture private, che hanno implementato la propria attività, spesso investendo anche sui macchinari, e in alcuni casi abbassando il prezzo delle prestazioni per diventare quasi concorrenziali con le strutture pubbliche. Tuttavia, si tratta di una soluzione che non tutti possono permettersi. Infatti, problemi economici e difficoltà di accesso alle prestazioni hanno indotto molte persone a rinunciare agli esami, perché chi non può permettersi di pagare è costretto ad aspettare; chi è più povero si cura dopo (sperando che non sia troppo tardi). Nel 2021, l’11 per cento delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a visite ed esami per problemi economici o legati alle difficoltà di accesso al servizio. A livello regionale, permangono al-cune situazioni particolarmente critiche, ad esempio in Sardegna dove la percentuale sale al 18,3%, con un aumento di 6,6 punti percentuali rispetto al 2019; in Abruzzo la quota si stima pari al 13,8%; in Molise e nel Lazio la quota è pari al 13,2% con un aumento di circa 5 punti percentuali rispetto a due anni prima. Il 19,7% delle segnalazioni ricevute (sul totale di 13.748) riguarda proprio le difficoltà d’accesso alla prevenzione in particolare alle vaccinazioni Covid (75,7%), a quelle ordinarie (15,6%) e agli screening oncologici (8,7%).
Ma perché le attese aumentano? Durante i due anni di pandemia sono state fatte molte meno prestazioni specialistiche. Nel 2018 e nel 2019 visite ed esami pubblici erano stati circa 226 milioni. Nel 2020, ha calcolato l’Agenzia sanitaria nazionale delle regioni (Agenas), si è scesi a 192 milioni e l’anno scorso a 162. Sono state quindi “perse” decine di milioni di prestazioni in due anni. Forse non tutte erano necessarie, ma è ovvio che adesso che si sta alleggerendo, molti tornano a chiedere di fare accertamenti che erano saltati. Non solo. Il Coronavirus ha lasciato strascichi su molte persone, il cosiddetto “Long Covid”. Per questo, ad esempio, un po’ ovunque aumenta la domanda di accertamenti cardiologici.
La risposta al problema dei tempi è su base locale, dato che la sanità è competenza delle regioni. In questo modo, i cittadini ottengono risposte diverse a seconda di dove vivono. Per chi sta nelle grandi città, talvolta è necessario spostarsi in provincia per ottenere una prestazione velocemente. Malgrado i fondi statali per le assunzioni, i sindacati lamentano da tempo carenze di organico. Questo rende più difficile tutta l’attività specialistica. Ad essere più in crisi sono però i Pronto soccorso, da dove molti medici sanitari se ne stanno andando per lo stress da troppo lavoro e anche per i pericoli che corrono in certi ospedali in cui non è garantita la loro sicurezza dalle intemperanze degli utenti. I Pronto soccorso sono anche la soluzione immediata al problema: chi non trova subito un appuntamento per una visita o un esame si presenta ai dipartimenti di emergenza degli ospedali, dove comunque, magari aspettando molto, una risposta arriva.
Quali soluzioni? Prolungare gli orari e i giorni di attività, assumendo il personale anche con contratti annuali. La Lombardia sta attuando la prima ipotesi: gli ambulatori sono aperti anche il sabato, la domenica e almeno una volta alla settimana fino alle 22 o alle 24. In un mese è riuscita a smaltire 5.340 appuntamenti in più. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di portare a 38 ore settimanali l’attività degli specialisti ambulatoriali interni, che lavorano in media 20 ore a settimana.
In mezzo a questo marasma, una notizia che lascia sbigottiti: la Società di medicina estetica – riferisce l’Ansa – ha informato che la pandemia non ha frenato i “ritocchini”. Sono in costante e irrefrenabile crescita dal 2020 non solo tra le donne – dalle giovani alle ottantenni -, ma anche tra gli uomini. I trattamenti per le labbra sono aumentati del 10 per cento, così come l’uso del botulino per fronte e rughe intorno agli occhi. A quando un sano “ritocchino” per il cervello?