Violenze, uccisioni, stupri. Perfino un neologismo, entrato a pieno titolo nel vocabolario della lingua italiana (Treccani) per definire l’omicidio di una donna da parte di un uomo, in particolare come conseguenza di mentalità e comportamenti di stampo sessista: femminicidio. E se sul suolo patrio si contano innumerevoli episodi di questo genere, l’Abruzzo non lo è e non lo è stato da meno negli ultimi anni.
L’obbrobrio delle violenze che si consumano tra e fuori le mura domestiche, nella nostra regione, fanno una cattiva mostra di sé nelle classiche nazionali. Eppure, con una grande dose di ipocrisia, continuiamo a far finta che l’8 marzo sia la loro festa e imperterriti, gli uomini continuano, in questo giorno, a regalare le mimose alle loro donne, mogli e figlie, alle quali, perfino il giorno prima hanno dedicato le loro violente attenzioni, fisiche e psicologiche. Forse, nella speranza di un floreale lavacro di coscienza o di remissione dei sensi di colpa. Ma ci sono colpe che non hanno senso. E quella della violenza contro le donne porta con sé un carico di perversione culturale e umana che non può trovare giustificazioni di sorta. È un fenomeno che va respinto e condannato senza se e senza ma. Qualsiasi tentativo giustificazionista sarebbe immorale.
Nessuna categoria, sociale, storica, antropologica, psicologica, può servire per spiegare l’indicibile e l’irrazionale. Questo è il punto. Usare una di queste categorie per spiegare il fenomeno della violenza contro le donne implica inevitabilmente la conoscenze delle ragioni di chi l’ha compiuta tale violenza. Questa può essere la necessaria logica delle aule di giustizia, non può esserlo per una comunità civile che, invece, ha il dovere di formulare condanne, senza appello, nei confronti di tutte le violenze e, in modo particolare, quella sulle donne. Altro che mimose l’8 marzo. Pensateci un attimo. La quasi obbligatorietà del gesto dell’omaggio floreale in questo giorno dell’anno non ha forse il sapore della banalizzazione? Al di là dell’ipocrisia, la spuria celebrazione dell’8 marzo, quale unico momento dell’anno dedicato alle donne, è una sorta di legittimazione del rapporto fondato sulla subalternità di genere che regola gli altri 364 giorni dell’anno.
Eppure la storia della mimosa dell’8 marzo è una storia di riscatto delle donne che nel 1946, per la prima volta, nell’Italia repubblicana, conquistarono il diritto di voto. Proprio alla vigilia di quel voto amministrativo qualcuno pensò di regalare alle donne delle violette, come si usa fare in Francia. Ma c’era un problema le violette erano difficili da trovare e costavano molto. Come fare? La soluzione la trovò una giovane filosofa ed ex partigiana di Giustizia e Libertà, Teresa Mattei, che insieme a Rita Montagnana e Teresa Noce, opta per un rametto di mimosa che fiorisce in quel periodo dell’anno. Un fiore anche carico di significati simbolici perché ricorda la semplicità e la tenacia contadina. È apparentemente fragile ma resiste anche in condizioni difficili e annuncia l’arrivo della primavera. Nasce il rito della rinascita e del riscatto.
Questo deve essere il significato dell’8 marzo: non banale, non superficiale, non stanco rituale per surrettizie legittimazioni di sfruttamento e di servaggio.