L’INFERNO DENTRO MA CON DIO A FIANCO

intervista a Mauro Corona a 50 anni dal Vajont
By Gino Consorti
Pubblicato il 5 Ottobre 2013

L’infanzia negata, la fuga dalla sua terra a causa dell’incuria dell’uomo che portò morte e distruzione, l’amore sconfinato per la natura, per la scultura del legno e per i libri. E poi ancora l’alpinismo, arrampicandosi fin lassù dove si è più vicini a Dio… Mauro Corona, scrittore, scultore e alpinista, è nato sessantatré anni fa a Erto, un bellissimo paesino in provincia di Pordenone, oggi trasformatosi, almeno la parte vecchia, in un luogo spettrale abitato solo da ricordi e dolore. Una sofferenza che ha segnato in profondità l’anima di quest’uomo dalla capigliatura e dalla barba ribelli ma dal cuore grande. Mauro, purtroppo, il dolore l’ha conosciuto sin da bambino, ancor prima della catastrofe del Vajont. Aveva sei anni, infatti, quando sua madre andò via di casa lasciando lui e i suoi due fratelli più piccoli in balia di un padre-padrone. Un’età, quella, dove anche una semplice carezza basta a trasmettere amore e sicurezza. A lui gli fu negato anche un surrogato d’amore…. L’unico tepore al cuore gli arrivò dai nonni e da una zia sordomuta. Aveva tredici anni, invece, quando la notte del 9 ottobre del 1963 dalle pendici settentrionali del monte Toc si staccò una frana gigantesca finendo nel bacino artificiale sottostante. L’incredibile forza d’urto della massa franata creò due onde gigantesche che dalla diga si abbatterono una verso monte, spazzando i paesi lungo le rive del lago, e l’altra verso valle. Quest’ultima superò lo sbarramento artificiale innalzandosi fino a lambire le case più basse del paese di Casso, poste 240 metri sopra la diga. Quindi s’incanalò nella stretta gola del Vajont, acquistando sempre maggior velocità ed energia; all’uscita della gola, raccontano le cronache, la massa d’acqua, alta 70 metri e con una velocità di circa 96 km/ora, si riversò nella valle del Piave radendo al suolo il paese di Longarone e alcuni villaggi vicini. Le vittime del disastro furono quasi duemila, di cui 1450 residenti nel comune di Longarone.

Dopo lunghi anni scanditi da inchieste e processi, nel 1971 la Cassazione decretò la responsabilità penale degli imputati per la prevedibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi. Tre furono gli errori umani fondamentali che portarono alla strage: l’aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l’aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l’allarme la sera del 9 ottobre per attivare l’evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.

Oggi ricorre il cinquantesimo anniversario di quella apocalisse annunciata. Mauro Corona e la sua famiglia fortunatamente furono risparmiati da quella valanga di acqua e detriti. Lui e uno dei suoi fratelli, però, furono trasferiti nel collegio di Don Bosco, a Pordenone. Una volta tornato ad Erto avrebbe tanto voluto frequentare la scuola d’arte di Ortisei, ma le misere condizioni economiche spinsero lontano quel sogno… Da suo nonno, infatti, aveva ereditato la passione per la scultura lignea, un’arte che non lascia spazio al superfluo e dove è il cuore a guidare lo scalpello… Lui, comunque, non voltò le spalle a quella passione e da autodidatta iniziò a tirare fuori delle bellissime figure da tronchi e rami. Dopo aver trovato un lavoro come scalpellino riquadratore ebbe la fortuna di imbattersi in Augusto Murer, uno dei più significativi scultori italiani della seconda metà del novecento. Da lui apprese il mestiere con la M maiuscola, migliorando le conoscenze tecniche e artistiche. Così, dopo la sua prima mostra organizzata nel 1975 a Longarone, s’incamminò in un lungo e luminoso percorso artistico che lo ha reso famoso nel mondo. Ma non è tutto. Contemporaneamente alimentò, con linfa preziosa, altri due suoi amori: l’alpinismo e la scrittura. Ed ecco, allora, che oltre trecento vie rocciose portano la sua “firma” e tre di queste, a oggi, hanno conosciuto solo i suoi scarponi a causa dell’elevato grado di difficoltà. Addirittura si è spinto fino in Groenlandia e in California sulle pareti della Yosemite Valley. E che dire, poi delle “sudate carte”? Dopo la prima pubblicazione di alcuni racconti nel 1997 sul quotidiano il Gazzettino, Mauro Corona, che nel frattempo si era “divorato” un paio di tir di saggi e romanzi, da Borges a Sepùlveda, ha mandato in libreria una ventina di volumi raccogliendo uno straordinario successo. La fine del mondo storto, ad esempio,  ha vinto il Premio Bancarella 2011. Inoltre le sue opere sono state tradotte in varie lingue (cinese, tedesco, spagnolo, bosniaco, rumeno, eccetera). Il suo ultimo capolavoro s’intitola Confessioni ultime (Chiarelettere Milano, pp.114, euro 13,90) e contiene anche un bellissimo videoreportage di Giorgio Fornoni girato a Erto, nella tana-rifugio di Mauro Corona. Questo straordinario sognatore innamorato di Dio e della natura, ha deciso così di aprire ai lettori il suo diario più intimo. Facendo sì ammenda delle sue debolezze e dei suoi errori, propri dell’essere umano, ma nello stesso tempo offrendo un prezioso ammonimento su ciò che dovrebbe essere la nostra bussola in una società sempre più brulicante di falsi testimoni e valori in saldo…

Prima di lasciare spazio a Mauro Corona, però, voglio raccontare un piccolo aneddoto che credo aiuti a inquadrare da subito il personaggio. Il giorno prima dell’intervista gli chiedo a che ora fissare l’appuntamento. “Chiama domani – mi dice – e ci mettiamo d’accordo”. “Tu che ora preferisci?” aggiungo… E lui: “Io non porto l’orologio, la schiavitù del tempo è ciò che ha rovinato il nostro pianeta… Tu chiama, mi troverai…”. Così l’indomani, dopo alcune ore di squilli a vuoto…, finalmente siamo riusciti a parlarci. Ed ecco cosa ci siamo detti.

Perché Mauro hai sentito il bisogno di confessarti pubblicamente in un libro?

Rischiavo di morire frainteso… Siccome non mi aspetto di vivere ancora a lungo avevo paura di morire senza aver chiarito alcune cose. Soprattutto per i miei figli e per chi mi conosce un pochino meglio.

Cosa ti ha impedito di farlo prima?

La vita, purtroppo, ti impone una replica di continue falsità, un copione di risposte e situazioni di comodo. Una sorta di convenzione che riguarda il modo di agire,  risposte dovute non nel rispetto della verità o degli stati d’animo ma semplicemente per non urtare la sensibilità degli altri, per non dispiacere qualcuno, per lasciare le cose così come stanno. In pratica ci costringono alla bugia e alla finzione.

Ad esempio?

Se mi invitano a cena e io ho voglia di restare a casa a leggere un libro, non posso essere sincero e leale perché l’umanità tutta è permalosa… Quindi il rifiuto verrebbe interpretato come un qualcosa di scorretto e offensivo. A quel punto, allora, sono costretto a ricorrere alla menzogna rispondendo che non posso in quanto ho già un impegno precedente oppure che devo portare urgentemente il mio cane dal veterinario… E questa recita, poi, ripetuta 365 giorni all’anno e per una vita intera, alla fine finisce per sembrarti una cosa normale.

Tu, invece, a 63 anni hai deciso di fare outing…

Proprio così. Questa “maschera” ha iniziato a pesarmi e allora, finalmente, ho cominciato a dire le cose che ho sempre pensato ma che ero stato costretto a tenermi dentro. Qualcuno potrebbe obiettare che non è necessario dire sempre in faccia ciò che si pensa, ma neanche il mal di denti, diceva Borges, sarebbe necessario… In pratica mi sono tolto il vestito che una società malata mi aveva cucito addosso…

Qual è l’errore più grande che hai fatto nella vita?

Ne ho fatti tanti ma forse la cosa che più mi pesa è la vendetta che ho consumato nei confronti di una persona. Niente di gravissimo, ma ho usato questo sentimento bieco. È una cosa che non mi perdono, un gesto che va contro i miei principi. Comunque se volessimo andare nella profondità di un errore allora potrei dire una cosa brutale, portando come esempio il comportamento di mio padre…

Cioè?

Mi sono accorto che mio padre ha messo al mondo gente che sta male…

Puoi essere più chiaro?

Sia io che mio fratello siamo persone che stanno male. E anche per l’altro nostro fratello, il più piccolo di noi, morto a vent’anni in circostanze tragiche, era lo stesso. Non posso negare che nel corso della mia vita abbia vissuto momenti belli, però sono stato sempre sofferente. E io ho messo al mondo dei figli, oggi ragazzi adulti, laureati e rispettosi, con cui ho un buon rapporto ma che anche sui loro volti vedo la sofferenza. Non dico di avere un pentimento per averli messi al mondo, sarebbe un qualcosa di orribile e contro natura, ma certamente mi assale una grande amarezza per aver dato la vita a chi non è felice.

Su che base li giudichi infelici?

Dalle loro vicissitudini terrene, da quello che accade giorno dopo giorno…

Cioè?

Vorrebbero cose che non hanno invece di ringraziare il Signore per ciò che ha donato loro. E poi baruffano di continuo con fidanzate e fidanzati, vorrebbero un lavoro migliore, eccetera. Insomma, sono degli insoddisfatti e hanno tante insicurezze…

Ma tutto ciò si chiama vita…

Lo so… Ma che diritto avevo di mettere al mondo gente che sapevo avrebbe sofferto come me? Bastavo io… Questo non vuol dire che non sia felice dei miei figli, anzi un giorno spero pure di diventare nonno, però credo che non ne valesse la pena mettere al mondo gente sofferente come me. Dirò di più. A mio avviso la vita su questo pianeta non finirà per colpa di qualche catastrofe o per una guerra nucleare ma semplicemente perché le donne non saranno più disposte a mettere al mondo figli che soffrono…

Detto da uno che ama così tanto la natura e ogni forma di vita mi sembra un bel paradosso…

Ma la vita è piena di paradossi. No-nostante l’età ho grande esuberanza ed entusiasmo, ma niente cancella la sofferenza che mi porto dentro. Vivo male, penso in continuazione alle brutture del mondo. Ad esempio ai bambini che non hanno da mangiare, alle tante persone che si fanno la guerra e si ammazzano, a un essere umano che uccide l’altro per un parcheggio… Davanti a tutto questo, uno con un po’ di coscienza come può sorridere? Dove sono finite le parole come tolleranza, generosità, rispetto dell’altro, aiuto? Viviamo in un cinismo micidiale dove non c’è spazio per la dolcezza dell’amore. Sono veramente disperato per tutto ciò che accade su questo pianeta. Sicuramente ci sono anche esempi positivi che riempiono il cuore ma sono rari rispetto al tanto male che c’è in giro. Si è persa la fede e senza Dio, come diceva Dostoevskij, tutto è possibile.

Tu che rapporto hai con Dio?

Sono un uomo di fede e se mi consenti vorrei consigliare a tutti i credenti un libro a mio avviso fondamentale per la fede…

Prego…

S’intitola Yossl Rakover si rivolge a Dio e l’autore è un ebreo, Zvi Kolitz. Questo libro ce l’ho sempre davanti al naso, non potrei farne a meno… Un vero e proprio capolavoro che dovrebbe essere letto ogni mattina in tutte le famiglie del mondo: “Caro Dio – scrive l’autore – io credo in te nonostante te”. Pensa che affermazione di fede… Io ogni mattina, appena mi alzo, ringrazio Dio di quello che ho. La mia non è una fede esigente, non chiedo nulla di particolare. La gente va a Lourdes per guarire io invece ci vado per ammalarmi… È troppo comodo chiedere sempre qualcosa. Ogni mattina alzo lo sguardo al cielo e dico: “Fai tu Signore, vuoi sterminarmi la famiglia? Per me va bene, non riuscirai a non farmi credere in te…”.

Frequenti la chiesa?

No, nonostante si trovi a pochi metri da casa mia…

Perché?

Conosco tanta gente che si reca a messa ma che nella vita non sa cosa sia il perdono… Ci sono razzisti, xenofobi, persone che non conoscono la tolleranza, però vanno a messa… Quelle persone andrebbero messe alla porta, cacciate via come fece Gesù con i mercanti nel tempio… Io quando passo dinanzi ai crocifissi di montagna bacio i piedi del Cristo ringraziandolo per quello che mi ha dato. Questa è la mia fede.

Allora sicuramente ti sarai innamorato di papa Francesco…

Proprio così, anche se ho amato tantissimo pure Giovanni Paolo II. Papa Francesco è una forza, mi piace molto. Ho sottomano una sua intervista rilasciata prima che diventasse papa e mi ha meravigliato molto il fatto che citasse continuamente Martin Fierro. A proposito, vorrei tanto sapere quanti intellettuali o critici letterari italiani conoscono questo signore così tanto citato da papa Francesco…

Rispondo per me, non conosco il tizio e vorrei che colmassi questa mia lacuna…

L’ho scoperto leggendo Borges. Martin Fierro è un poema epico gauchesco scritto da uno scrittore argentino formidabile, José Hernàndez, del XIX secolo. E il protagonista, appunto, Martin Fierro, insegna la vita con semplicità, con umanità, con il perdono, con la saggezza. Uno che ha letto e apprezza Martin Fierro, dunque, non può che essere una persona straordinaria. E poi papa Francesco ha una dolcezza che buca… Attraverso un’intervista radiofonica gli ho chiesto di venirci a trovare. Ai superstiti e ai sopravvissuti del Vajont farebbe immensamente piacere incontrarlo in occasione del cinquantesimo. A noi tutti regalerebbe una carezza speciale…

Senti Mauro, ma la tua giornata ideale in cosa consiste?

Intanto ho la fortuna di dormire poco, 3-4 ore al massimo.

Fortuna?

Sì, per me è una fortuna… Siccome la vita è breve come un sogno, ritengo che sprecarla per le cose inutili non sia il modo migliore di viverla. Mi alzo intorno alle quattro del mattino e se ho voglia mi metto a scrivere, oppure a leggere o a guardare qualcosa in tv. Verso le nove, poi, esco di casa e vado a camminare in montagna, non m’interessa che tempo faccia. Giro nei boschi, faccio una scalata oppure vado a funghi. Nel pomeriggio torno a casa dove, spesso, come pranzo apprezzo un bel panino…

Solo un panino?

Sì, d’altra parte la vita è come l’arte dello scolpire, bisogna togliere tutto il superfluo… A volte qualche turista mi chiede l’indirizzo di un locale dove mangiare bene. Sapessi che fastidio…

E tu cosa rispondi?

Stai tre giorni senza toccare cibo e vedrai che mangerai bene ovunque…

Provo a immaginarmi la faccia del turista… Ma dopo aver mangiato il tuo bel panino come riempi il resto della giornata?

Mi metto a scrivere qualche racconto oppure delle lettere, insomma cerco di fare ciò che più mi piace. Questo, però,  e lo ripeto fino alla noia, non mi rende un uomo libero dalle paure, dalle insicurezze, dal disagio interiore, dalle fragilità. Non è affatto semplice stare al mondo, soprattutto in questo mondo…

Noi, scrivi nel libro, lasciamo tracce come volpi nella neve fresca… Tu di quale traccia vai fiero e quale, invece, cancelleresti?

Vorrei cancellare questo mio comportamento spaccone, arrogante, da bevitore anche se sono ormai più di tre anni che mi tengo lontano dal demonio dell’alcol. In passato, infatti, ho fornito dei cattivi esempi soprattutto a tanti giovani che vedevano in me un uomo forte e importante, uno che si era tirato fuori dal pantano riscattandosi. A quei giovani, purtroppo, ho mostrato il brutto esempio di un uomo che andava in osteria a bere. E in molti di loro ho stimolato questo desiderio… Questo comportamento è un qualcosa che non mi perdonerò mai.

Di cosa, invece, sei orgoglioso?

Del mio modo di vita semplice.

Ma neanche l’enorme successo raccolto dai libri e dalle sculture ha suscitato un minimo cambiamento in Mauro Corona?

Assolutamente no. Sono rimasto quello di sempre. Uno che va a piedi e che possiede una Fiat Panda di 22 anni… Sono fiero di aver conservato l’umiltà, non ho pretese, non m’interessano gli abiti firmati. Tutte queste cose le ripeto ai tanti ragazzi che incontro nelle scuole. A ognuno dico di tenersi stretto al cuore il proprio carattere, senza scimmiottare altri comportamenti o esempi. Il faggio, ad esempio, non può fare la betulla, deve fare il faggio… I nostri giovani, invece, spesso vogliono fare la betulla pur essendo faggi. E così  imitano la stupidaggine e il superfluo. Mi consenti un esempio?

Certo…

Una maglia di cotone pregiato, il cui prezzo giusto sarebbe tra i 30 e i 40 euro, solo perché porta la firma di uno stilista famoso arriva a costare anche oltre mille euro… Questo, a mio avviso, è un insulto all’intelligenza e un inno alla stupidità umana.

Paolo VI diceva che l’umanità non ha bisogno di maestri bensì di testimoni… Sei d’accordo?

Sono pienamente d’accordo, il problema è che si diventa maestri nostro malgrado. Uno si comporta bene e inconsciamente e involontariamente diventa  maestro. Non posso dire, ad esempio, a mio figlio di non bestemmiare se poi in famiglia sono il primo a lanciare insulti… Se sono un violento che picchia la moglie, inevitabilmente, da grande, anche mio figlio picchierà la sua… Ecco dov’è il problema, la nostra società oggi ha bisogno di veri testimoni.

Che ricordo hai della notte del 9 ottobre 1963?

Il rumore assordante che ti penetrava nel cuore e nella mente. Un qualcosa di irripetibile, non c’è film o documento che possa minimamente riproporre ciò che le popolazioni vissero. Trecento milioni di metri cubi di fango e detriti giù per la valle. E poi la fuga verso per la montagna senza renderci conto, fino al mattino seguente, cosa fosse accaduto. E ancora le grida di due temerari che si avventurarono sulla cima… Dissero di non vedere più le luci di San Martino e di Longarone, nella valle c’era solo una macchia di luna… Il brutto è che la tragedia del Vajont non è mai finita…

Per questo nel libro dici che ci sono stati due Vajont?

Mi riferisco al fatto che si sia sterminata l’intera cultura di un popolo. Una società di gente che lavorava con le mani. In pochi secondi, è stato cancellato l’intero tessuto sociale e da quel momento non ci siamo più ripresi, brancoliamo ancora nel buio, cerchiamo ancora di darci un progetto. Il brutto del Vajont, purtroppo, è stato il dopo. Il cinismo degli uomini che hanno sepolto nel nulla duemila persone e non le hanno neanche ricordate. Questo è ciò che fa più male. Perché ricordare il cinquantesimo e non, ad esempio, il 29º oppure 36° o ancora il 42º anniversario? Se non ci fosse stata l’opera  di Marco Paolini l’Italia pallonara e ferrarista, forse, non si sarebbe neanche accorta di una simile tragedia…

Nella disputa tra i superstiti e i sopravvissuti, le due associazioni nate a Longarone, tu da che parte stai?

Questo non doveva accadere… A rigor di logica chi il giorno dopo è stato estratto dal fango, parlo quindi dei sopravvissuti, dovrebbe avere più voce in capitolo… Dall’altra parte, però, e parlo dei superstiti, non è mica “colpa” nostra se non siamo stati uccisi dal Vajont o se non abbiamo avuto morti in famiglia… Trovo vergognosa, dunque, una disputa tra superstiti e sopravvissuti. Bisognerebbe invece collaborare, prendersi per mano e fare insieme il girotondo della rinascita creando da questa tragedia immane un qualcosa di positivo.

Tipo?

Ad esempio portando sul posto i bambini delle scuole per sensibilizzarli al problema. Realizzare, cioè, un percorso “conoscitivo-formativo” affinché gli ingegneri di domani non producano più simili scelleratezze. Spiegare loro che per vivere bastano pochi soldi; in pratica da questa tragedia bisognerebbe tirare fuori un esempio che migliori l’uomo anziché peggiorarlo. Qui, invece, non è cambiato nulla, continuano a rubarci l’acqua, la ghiaia e così via. Il demonio, diceva nel 1923 il famoso filosofo e pedagogista austriaco Rudolf Steiner, non è quello con le zampette da capra e con il forcone, bensì quello che verrà sulla terra in forma di denaro…

Dipendesse da te come disegneresti il futuro di questa terra?

Punterei sulle visite turistiche. Un turismo intelligente per far vedere alla gente fino a che punto possano spingersi l’idiozia e il cinismo dell’uomo. Visite guidate, ad esempio nella parte vecchia di Erto. Con i soldi dello stato o di qualche privato ristrutturerei le circa duecento case lasciate in abbandono. Quindi “espropriandole” per un certo numero di anni ai vari proprietari o eredi le affitterei agli studenti, alle loro famiglie e anche a chi decide di trascorrere le vacanze in questi luoghi meravigliosi. Parlo di studenti perché contestualmente alle case andrebbero realizzate delle facoltà universitarie, penso ad esempio a Geologia, Scienze forestali e ambientali, Scienze agrarie. E poi corsi di botanica ed erboristeria e magari anche una piccola distilleria di erbe medicinali. Qui, ad esempio, c’è un’erba, l’Arenaria huteri, che non si trova in nessuna altra parte. Ovviamente gli affitti dovrebbero avere prezzi contenuti. Poi, a distanza di anni, quando lo stato o il privato avrà recuperato i soldi investiti, tutte le abitazioni torneranno ai proprietari . Nel frattempo si sarà creato anche un indotto con vari ristoranti, bar, negozi di artigianato e così via.

Assolutamente interessante, la realtà, però, oggi è ben diversa…

Purtroppo è completamente diversa… Basta solo dire che ogni anno ci sono circa 200 mila visite alla diga e ci sono ancora due latrine di plastica…

Alpinista, scultore, scrittore: qual è la vera veste di Mauro Corona?

Se dovessi forzatamente sceglierne una direi quella di scultore. Io, però, sono uno di quelli che nasce ogni mattina…

Non ti seguo…

Se una volta in piedi il mio corpo e la mia anima mi dicono di scrivere, in quel momento divento uno scrittore, o meglio uno che scrive… Viceversa se ho voglia di scolpire il legno e quindi in quel momento provo “avversione” per la scrittura o l’arrampicata, divento uno scultore, e così via. L’altra mattina, ad esempio, mi sono svegliato con il desiderio di vivere all’aperto e così ho fatto. Da venerdì a lunedì sono stato in montagna, dormendo nelle baite e arrampicandomi sulle cime. Ogni mattina nasco con una veste differente. Ovviamente sono anche quello che ha fatto lavori pesanti trascorrendo diversi anni nelle cave di marmo. Restavo lì a spaccarmi la schiena oltre 15 ore al giorno… In quel caso, però, non potevo scegliere, ero obbligato a farlo. La mia vera anima, comunque, si trova nel legno.

Perché sin da bambino hai avvertito il bisogno di mettere in gioco la vita in numerose arrampicate dal rischio elevato?

Tutto nasce da una mancanza di affetto, è stata una sorta di ribellione, una ricerca di aiuto per farla finita…

Addirittura?

Proprio così. Da piccolo non ho ricevuto mai un gesto o una parola di affetto e questo mi ha pesato e mi pesa in maniera incredibile. Come se avessi una montagna di piombo sulla schiena… Mamma ci abbandonò quando avevo sei anni, l’altro mio fratello cinque e quello più piccolino appena sei mesi… Ci lasciò per andare a vivere con un altro, scappò via per non essere ammazzata dal marito, mio padre, che era un delinquente…

Delinquente…?

Io ho voluto bene a mio padre ma bisogna avere il coraggio di parlar male anche di un genitore, altrimenti il mondo non sta più in piedi… Ho amato tanto i miei genitori ma loro sono stati per me un qualcosa di spregevole…

E chi ha badato a voi?

Siamo cresciuti con i nonni e una zia sordomuta che pregava di continuo. Forse è stata proprio lei a tenermi in piedi nella vita. Ricordo questo suo pregare di giorno e di notte, ovviamente lo faceva con la mente e le mani incrociate… Come vedi, quindi, sin da bambino mi sono portato dentro questa sorta di ribellione. Io e i miei fratelli non chiedevamo nulla di speciale, solo qualche carezza ogni tanto e un pezzo di pane. Purtroppo da loro non abbiamo avuto né l’una né l’altra cosa. Non mi vergogno a dire che abbiamo attraversato tutti gli stadi della povertà e dell’indigenza, con mia nonna andavo a chiedere l’elemosina nei paesi della valle… Chiedeva-mo da mangiare e lei, in cambio, offriva delle calze di lana fatte con i ferri… Questa carenza di affetto, allora, ha fatto sì che mi ribellassi. Come? Diventando un alcolizzato e mettendo in gioco la vita su una parete di roccia. Adesso tutte queste cose mi sono lontane, non le rinnego ma sono tornato l’uomo che ero prima, quello che per tanti anni aveva dovuto indossare una maschera…

Non ti mancano neanche un po’ i tuoi genitori?

Certo che mi mancano, avrei voluto dirgli tante cose ma non mi è stato mai possibile… L’ultima volta che ho chiesto al mio papà dei chiarimenti ha mandato mia mamma in coma a legnate… Anche da mia madre ho cercato invano di avere dei chiarimenti.

In merito a cosa?

Sul perché avesse abbandonato tre figli piccoli, addirittura uno di soli sei mesi. Se ne è andata con un altro per cercare la felicità? Ma come puoi essere felice abbandonando tre bambini in balia di un pazzo…? Neanche lei, però, mi ha dato risposte. Detto questo, non mi ritengo certo il depositario unico del dolore. Ci sono tanti bambini nel mondo vittime di situazioni e vicende più strazianti delle mie.

A tuo avviso perché oggi la famiglia è in crisi?

Perché siamo forsennatamente proiettati verso una frenesia di vita che ci rende cattivi. Dovremmo invece trascorrere più tempo possibile in famiglia, con i nostri figli. Magari portandoli a camminare nei boschi oppure a passeggiare in riva al mare, o accompagnandoli a piedi a scuola o all’asilo. Riappropriamoci del tempo e dei veri valori della vita. A mio avviso prima di diventare genitori bisognerebbe superare un esame e quindi ricevere l’abilitazione… Bisogna vivere la famiglia e non pensare invece solo alla carriera… I camosci, ad esempio, attraverso l’odore che emanano restano vicini ai loro genitori anche da adulti e da vecchi… L’uomo, invece, che si ritiene molto più intelligente, abbandona i propri figli pensando alla carriera. È vero, il lavoro ha la sua importanza, ma quando torniamo a casa facciamo in modo di trascorrere un po’ di tempo con loro. E poi insegniamogli ad amare la lettura. Leggere è una cosa meravigliosa, a me ha salvato la vita distogliendomi dai pensieri truci…

A te avrebbero dato il patentino di genitore?

No, ho tante colpe, anche se tutto sommato sono stato un padre presente. Però se ripenso alla mia infanzia mi assale un dubbio inquietante…

Del tipo?

Vuoi vedere che mio padre faceva bene a massacrarci di botte?

Per quale motivo vi menava?

Se ad esempio non avevamo munto le capre o accatastato il fieno ci lasciava legati per oltre otto ore a due alberi da frutta… Io, invece, con i miei figli ho avuto un comportamento direi normale. Li ho accarezzati, ho trascorso del tempo con loro, gli ho insegnato a scolpire il legno. Pensa che da bambini realizzarono un bellissimo presepio che ogni Natale campeggia in casa… Tutti i miei figli sanno scalare, li ho portati da piccoli con me in montagna e hanno imparato anche a fare la legna.

Della nostra classe politica che ne pensi?

A mio avviso viviamo in una democratura…

Cosa?

Un misto tra democrazia e dittatura. Io politico mi faccio le leggi, le approvo e quindi vengo a casa tua e ti porto via il campo, la collina, la montagna, il mare, il giardino… Oggi si entra in politica non per spirito di servizio ma per avere potere, denaro e notorietà. Per me la politica dovrebbe essere una sorta di volontariato: una paga mensile di tremila euro e qualche agevolazione. Niente di più. Altro che stipendi, pensioni d’oro e privilegi da far vomitare…

Mauro Corona come s’immagina il suo futuro?

A meno che non mi capiti una malattia che mi porti via all’improvviso da questo mondo, mi vedo in una piccola baita. Quattro semplici pareti dove vivere in montagna insieme al mio cagnolino facendo le cose che amo di più. Cioè leggere, scolpire e scrivere. Vorrei uscire pian piano dalla luce dei riflettori, togliermi di dosso questa notorietà…

Ovviamente nel tuo rifugio vivresti senza l’orologio al polso o appeso alla parete…

Assolutamente sì. Starei lì a guardare la notte e il giorno, ringraziando Dio per quello che mi ha dato. Vivere e morire in pace. “Beato colui – scrive Walter Flex nel bellissimo racconto di guerra Il viandante fra i due mondi – che senza odio chiude le porte del mondo”. Questo vorrei fare. E una volta morto, come scriveva lo scrittore portoghese Fernando Pessoa “…quando l’erba crescerà sulla mia tomba sia lì il segno che mi si dimentichi del tutto. La natura mai si ricorda, per questo è bella. E se si prova il bisogno morboso di ’interpretare’ l’erba verde sulla mia tomba, dite pure che continuo a verdeggiare e a essere naturale”.

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