L’IDOLATRIA DEL WEB MINACCIA PER LA LIBERTÀ

La rivoluzione di internet, che in tempi recenti è stata applaudita come utile e auspicabile espressione di progresso tecnologico, in grado di traghettarci il mondo in casa a portata di click, sta trasformandosi, con allarmante rapidità, in autentica idolatria del web. Il tema è attualissimo, e di quelli che scottano, se anche Julian Assange, noto fondatore di WikiLeaks, sente l’urgenza di metterci in guardia dai colossi del web, stigmatizzandoli come il nuovo totalitarismo.

Quanti di noi si sono mai fermati a riflettere sul fatto che personaggi come Mark Zuckerberg, fondatore e proprietario di Facebook, influenzino le decisioni dello stesso congresso degli Stati Uniti d’America? Eppure ciò sta accadendo davvero, come dimostra la nascita di una sua lobby che mira a modificare le leggi sull’immigrazione e favorisca l’ingresso di talenti stranieri. L’universo digitale, le cui magnifiche sorti e progressive avevano fatto sperare in un domani radioso nel quale le conoscenze sarebbero state appannaggio di tutti, in una democratizzazione idealistica animata da ideali libertari, si è tramutato in un mostro mitologico, un’Idra dalle molte teste, i cui nomi corrispondono ai colossi che lo monopolizzano: Facebook, Google, Amazon, Twitter, Apple, tanto per citare i principali. Se da un lato, come evidenziato da Jaron Lanier (l’inventore della realtà virtuale e celebre pentito del web) nel suo manifesto Tu non sei un gadget, il web sta stritolando la classe media, cancellando posti di lavoro e azzerando interi settori dell’economia, dall’altro i padroni della rete stanno esercitando una funzione omologatrice su idee e comportamenti sempre più pressante, plasmando valori e stili di vita. Questa “poltiglia di informazione anonima”, nella quale le considerazioni di premi Nobel si mescolano alle osservazioni dell’utente qualunque, funge da alimento predigerito per molti utenti che se ne nutrono in maniera spesso acritica e inconsapevole.

Non di rado, smentendo affermazioni e notizie palesemente false, mi è capitato di sentirmi rispondere: “è vero, l’ho letto su internet!”, quasi si trattasse della bocca della verità. Nella mia esperienza di blogger ho avuto modo, nel corso degli anni, di verificare quanto sia facile manipolare e distorcere le notizie online per fini strumentali, se non addirittura malevoli, spacciando per autentiche vere e proprie corbellerie. Leggendo Rete padrona di Federico Rampini, un’affermazione tra tutte mi martella nella mente: ed è che questo neocapitalismo moderno desidera persuaderci della propria inevitabilità e ineluttabilità. Esso si propone come via unica, priva di alternative. E mentre noi cinguettiamo su Twitter e postiamo faccine su Face-book, i loro padroni accumulano milioni di milioni, usandoci come merce.

Illusorio pensare di sottrarsi, come pure tento di fare, a questa mercificazione, evitando Facebook e comunicando con gli amici distanti su WhatsApp, dal momento che è anch’essa proprietà dell’onnipresente, pervasivo Zuckerberg il quale ha sborsato la bellezza di 19 miliardi di dollari per acquisirla. Non va meglio con Google, proprietario anche di YouTube e di Motorola, cioè il secondo e il terzo sito più visitati al mondo (il primo è, neanche a dirlo, il solito Facebook), in barba alle leggi antitrust. Con la sua nuova sede sulla baia di San Francisco, costata un miliardo di dollari, Google è l’occhio che scruta il nostro accesso ai dati, conoscendoci molto da vicino. Se il ministro della Giustizia Federale tedesco Heiko Maas chiede ai suoi dirigenti di rendere pubblico l’algoritmo che lo ha reso il più potente motore di ricerca d’Europa, allora significa davvero che lo strapotere, quasi monopolistico, di Google inizia ad essere temuto. Qui non si tratta di demonizzare internet, ma di chiederci cosa ci ha tolto, rubandoci la privacy, rendendoci sempre più distratti e futili, esibizionisti e superficiali. Occorre, per dirla con Lanier, rompere l’incantesimo, smascherare l’impostura, riprenderci la nostra indipendenza di giudizio e prefigurare l’avvento di un umanesimo digitale. Non sarà facile, come non è facile immaginare un motore di ricerca che funzioni meglio di Google, il cui motto non fare il male è diventato pura banalità, dal momento che, come sottolineato da Assange, il suo modello di business, rappresentato dalla sorveglianza, colpisce miliardi di cittadini raccogliendo più informazioni possibili sulle persone, le quali vengono indicizzate e immagazzinate, per creare modelli in grado di prevederne i comportamenti da vendere ai pubblicitari.

Trovo importante domandarsi come il progresso telematico stia trasformando la nostra mente, condizionando le nostre abitudini, i nostri stili di vita, inducendo falsi bisogni, come quello di strumenti tecnologici sempre più avanzati, illusoriamente prodigiosi, capaci quasi di trasformarci la vita magicamente azzerandone la fatica. Di qui la nascita di élite digitali, dalle quali restano fatalmente esclusi i meno abbienti che non accedono ai prodotti di alta gamma. La Silicon Valley, un tempo paradiso di progressisti, sta trasformandosi sotto i nostri occhi nella patria del tecno-totalitarismo, una nuova forma di dittatura alla quale possiamo sottrarci. Come ogni cambiamento, anche questo deve iniziare da una presa di consapevolezza: solo così si può sperare di riscrivere le regole del gioco.

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