Da un po’ di tempo si va notando intorno all’aborto una voglia di demolizione di quel poco di indugio riflessivo e di condizioni che servono alla legge, e soprattutto alla donna, prima di un gesto che tuttora costa prova fisica e, spesso, traumi interiori che faticano a farsi diffondere. A Parigi, dopo 40 anni dalla legge Veil, si vorrebbe sopprimere non solo la settimana di attesa prima dell’intervento, ma addirittura l’obiezione di coscienza. Vive proteste dalla Fondazione J. Lejeune che attacca la proposta come rischio di un “diritto” affiancato a valori e libertà “di portata costituzionale”. A Glasgow due infermiere cattoliche sono state convocate a motivare la loro obiezione di coscienza davanti alla Corte suprema. In Italia si vorrebbe giungere a precettare gli obiettori. Sembra una mobilitazione combinata e di fatto è un allarmismo ideologico per un incombente “pericolo vita” del pianeta, quasi sia insufficiente l’esortazione e l’agevolazione, dovunque, ad abortire. Nonostante i quotidiani bollettini di morte da tragedie, patologie e anagrafe, la barriera contro la vita chiede all’aborto cifre sempre più alte, perché, se deve affiorare, la vita deve stare a livelli previsti e controllati di qualità, quantità, in qualche parte anche di genere, come in Cina e India dove per la quota rosa si seguono sistemi più da sterminio che da controllo. Uno scenario da far configurare la maternità come reato.
A proposito della selezione prenatale di genere il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, in un recente documento riguardante la protezione della donna con incitamento all’aborto sicuro, lamentava la sproporzione dell’aborto selettivo che non rispetterebbe la parità dei generi. Che vorrebbe questo documento: che meno aborti rosa rispetterebbero la dignità della donna? Allora c’è in questa pratica qualcosa di indegno e disumano, al di là delle cifre, che serve da criterio di riguardo per la donna? Ma la pianificazione contro la vita si spinge a prevenire questo dubbio e mira alla sterilizzazione femminile con massicce campagne di “convinzione remunerata” (nel periodo anni 50 – anni 70 era forzata!), con interventi operativi che risultano mortali in gran numero di casi. Recentemente qualche organo di stampa ha parlato di “strage silenziata”.
Riflettendo in casa nostra, la più restia a procreare, pochi mesi fa suscitò scalpore la proposta del governatore del Lazio Nicola Zingaretti di costringere i medici obiettori a collaborare alle operazioni preparatorie per l’aborto. Sui giornali laicisti tornarono le argomentazioni, improponibili, che erano circolate all’indomani di un’altra dichiarazione, autorevole quanto illegittima, quella di Stefano Rodotà, secondo cui, essendo legge di stato, la 194 dovrebbe obbligare anche gli obiettori. Non ci si aspetterebbe da un uomo di legge un’estensione così indebita e stravolgente dei termini di una disposizione che non parla di diritto ad abortire, ma di depenalizzare un’interruzione volontaria di gravidanza che lo stato assicura in strutture pubbliche dopo aver aiutato la donna a ponderare la gravità della scelta. La stessa legge prevede che chi, nel personale medico, per propri motivi, ne abbia ripugnanza, non è tenuto a partecipare alle operazioni connesse. Anche negli altri stati la legge mette al sicuro questa riserva. Contro la leva militare obbligatoria l’obiezione di coscienza, sebbene con fatica, riuscì a farsi valere, a suo tempo, e oggi tutti la consideriamo un valore irreversibile. Finanche la stalinista Repubblica democratica tedesca prevedeva l’obiezione per il servizio militare.
Tutto proviene da un’antropologia inaccettabile che vede nel nascituro un ammasso passivo di cellule, magari utili a qualcosa, e non una persona all’inizio mirabile e attivo della sua biografia. Più che giustificate le reazioni cattoliche, tra le altre quella del ginecologo Giuseppe Noia, che denunziava un totalitarismo teso a “silenziare le coscienze… a suon di menzogne”. Alludeva alla scusa del personale in difficoltà a far fronte alle richieste. Era come dire che la cronica disorganizzazione di questo, come di altri settori regionali della sanità, ha i numeri per funzionare, senza coprire un fastidio ideologico con pretesti di banale inefficienza. Non si crederebbe che la stessa Radio radicale lo scorso fine novembre parlava di difficoltà dovuta a inerzia delle strutture pubbliche che, tra l’altro, potrebbero far ricorso a strutture private, sempre meglio organizzate, diceva la relatrice, ma non cooptabili, continuava, perché, nell’approvare la 194, a suo tempo, i comunisti si opposero all’applicazione della legge in strutture private.
Ma in questo argomento c’è un surplus che non va trascurato: la decisa e costante opposizione della chiesa cattolica all’aborto, qualificato come “uccisione”. Lo ripeteva Giovanni Paolo II, lo ha confermato papa Francesco includendolo in una “falsa compassione”, un linguaggio esplicito e sovversivo per la cultura laicista che fa scorgere nella sua strategia legale un movente ostile e ingiustificato. Inoltre si vorrebbe così avvertire quell’emisfero obiettore che non ritiene, tale cultura, custode della vita e della verità. Ne ha dato prova recente la testata più laicista della stampa italiana celebrando la “vittoria” dei 40 milioni di aborti l’anno, e poi insulti e lezioni morali agli obiettori. Qui il discorso finisce in pura sede laica perché sottrarsi ad una imposizione immorale, quale che ne sia l’origine e l’autorità, è diritto-dovere della coscienza, ultimo e inviolabile rifugio della libertà.