LEGGENDE E TRUCCHI SUL CIBO CHE COMPRIAMO

intervista allo scienziato Dario Bressanini
By Gino Consorti
Pubblicato il 2 Luglio 2013

“Dobbiamo imparare a essere un po’ più critici – afferma l’autore del libro Le bugie nel carrello – nei confronti delle affermazioni pubblicitarie. Attenzione all’eccessivo consumo di tonno. Il latte? Berlo da adulti non è assolutamente innaturale. Che sorpresa negativa i coloranti nelle mazzancolle e nello yogurt…”

Come tutte le mode, anche quella del cibo e della sua trasformazione in cucina ha invaso da un po’ di tempo il pianeta terra. Ovviamente con alcuni distinguo: circa 24mila persone, in base agli ultimi dati forniti da diverse organizzazioni e istituzioni mondiali, muoiono ogni giorno per fame o cause a essa correlate, mentre si calcola che siano circa 800 milioni quelli che soffrono per fame e malnutrizione. In questo caso, allora, potremmo parlare, amaramente, di una “abitudine” alla morte per mancanza di cibo e a una vita di stenti… Una situazione angosciante che meriterebbe senza dubbio una diversa attenzione da parte di tutto il pianeta, governanti in testa, per porre fine a questo vergognoso spettacolo: una parte della popolazione afflitta dall’obesità e dallo spreco, un’altra, invece, lasciata morire col piatto vuoto… Una triste realtà su cui tutti noi, nessuno escluso, dovremmo riflettere profondamente nella speranza che possa sortire l’effetto di un secchio d’acqua che rinfreschi la nostra coscienza e la nostra memoria, troppo spesso appassite dalla routine di una vita frenetica ed egoista.

Ma torniamo a quello che è l’argomento di queste pagine: il cibo. Una sorta di moda diventata ormai “permanente”… Basta sintonizzarsi, infatti, su un qualsiasi canale televisivo, a qualunque ora del giorno, oppure sfogliare un giornale o una rivista per imbattersi in una ricetta o in una pubblicità di un prodotto alimentare miracoloso… Un vecchio slogan diceva che la pubblicità è l’anima del commercio, ma vista l’evoluzione di questi ultimi anni potremmo tranquillamente dire che oltre all’anima è anche il corpo… Che dire, infatti, del bombardamento quotidiano a cui il consumatore è sottoposto, vuoi dalla tv, vuoi dai tanti opuscoli che intasano la cassetta della posta, vuoi dai mille cartelli e richiami strategicamente collocati nei supermercati? Un fuoco amico o nemico, come andremo tra poco a scoprire, che spesso influenza le nostre scelte e alleggerisce il nostro portafoglio…

Qualche tempo fa Dario Bressanini, ricercatore universitario presso il dipartimento di Scienza e alta tecnologia dell’università dell’Insubria, a Como, ci aveva parlato di Pane e bugie, un libro dedicato alla disinformazione in campo alimentare. Oggi, a distanza di qualche anno, il noto scienziato, sempre con la casa editrice Chiarelettere, ha portato in libreria una sorta di sequel, un altro interessantissimo volume dal titolo Le bugie nel carrello (pp.208, euro 12,60). Mentre il precedente la-voro ruotava attorno ai miti e alle paure che circondano il cibo, questa volta Bressasini, che collabora con la rivista Le Scienze come titolare della rubrica mensile Pentole e provette ed è anche autore del popolare blog Scienza in cucina, mette sotto la sua lente di ingrandimento alcuni prodotti per una spesa più consapevole. Ecco, allora, che noi non potevamo mancare in questa sorta di visita guidata all’interno di un supermercato virtuale dove, a spingere il carrello, è un consumatore d’eccezione.

Partiamo dalla farina di kamut, da tutti giudicato il grano migliore. A lei, invece, cos’è che non la convince…?

Il kamut è stato presentato come il grano dei faraoni. La leggenda racconta che, subito dopo la seconda guerra mondiale, un pilota militare americano abbia trovato in un’antica tomba vicino a Dashare, in Egitto, una manciata di semi vecchi di quattromila anni. Questi furono successivamente spediti a  un agricoltore del Montana che li piantò.  Miracolosamente germinarono, consentendo così l’avvio di una piccola produzione.

Questo è quanto racconta la leggenda…, invece come stanno le cose?

In realtà non è l’antico grano dei faraoni, è molto probabile che la storia sia frutto dell’immaginazione… Dopo 4000 anni non si riesce a far germinare dei semi trovati in una tomba… E poi all’epoca gli antichi egizi coltivavano il farro, l’avena. Questo è un cereale originario dell’Anatolia, ma si coltiva in Iran e in Egitto e per trovarlo basta recarsi in un qualsiasi mercato. Quello che però tanti non sanno è che kamut non è il nome del cereale che invece si chiama Khorasan.

Cioè?

Kamut è il nome del marchio registrato, come ad esempio potrebbe essere la Nutella o la Coca Cola. Chiunque potrebbe coltivare questo tipo di grano, il problema è che nessuno potrebbe venderlo con questo nome proprio perché il marchio è stato registrato dalla kamut international che ne ha quindi l’esclusiva.  Dunque tutto il frumento che noi chiamiamo kamut lo importiamo da coltivazioni del Canada o del Montana.

Ma ci sono differenze nutrizionali rispetto alle altre farine?

Non ci sono grandi differenze, l’unica è nel prezzo. Quella di kamut costa quattro volte più delle altre…

Dalla farina alle patate: è vero che quelle al selenio fanno diventare più intelligenti?

Assolutamente no, in generale il selenio non ha questa proprietà. Il selenio, come anche gli omega tre, sono sicuramente importanti, nelle giuste dosi, per l’organismo. Però ad oggi non è dimostrato che ci sia un effetto sulle capacità cognitive. Non è dimostrato per nulla che aggiungendo più selenio si diventa più intelligenti. Il selenio lo troviamo naturalmente nella carne, in particolare nelle frattaglie ma anche nel pesce. Anche le verdure e gli ortaggi, ad esempio broccoli e cipolle, lo contengono. Le patate, invece, sono estremamente povere di selenio di conseguenza gli viene aggiunto. Ma se uno segue una dieta variata non dovrebbe avere alcuna carenza di selenio.

Spostiamoci sul pomodoro di Pachino…

Questo è un tipico caso di tradizione inventata. Si pensa, infatti, che questo piccolo pomodoro a forma di ciliegia, comunemente chiamato Pachino dal nome della cittadina siciliana da cui proviene, abbia una storia millenaria o comunque antica. Invece è stato introdotto in Italia solo recentemente, intorno agli anni 90, da un’azienda israeliana. Prima di allora, infatti, il Pachino in Sicilia non esisteva. È l’esempio, dunque, di una invenzione diventata tradizione visto che non ha nulla a che fare con l’Italia. Ciò sta a significare che l’origine di un prodotto non è fondamentale. Noi italiani, infatti, sappiamo produrre tante cose buone anche se non sono nate con il tricolore addosso…

Ci spiega, in pillole, l’agricoltura biodinamica?

Nasce dal pensiero di un filosofo austriaco, Rudolf Steiner, che aveva una sua idea di come dovesse funzionare l’agricoltura. Lui immaginava l’agricoltura e il mondo degli esseri viventi come permeato da forze cosmiche ed energie astrali. Teneva molto in conto l’oroscopo, le costellazioni e quindi dava una serie di prescrizioni su come coltivare. Dal punto di vista pratico l’agricoltura biodinamica è una coltivazione biologica, per cui impone certi modi di procedere e vieta l’utilizzo di alcuni pesticidi. In più, però, introduce degli elementi esoterici che non hanno alcuna dimostrazione scientifica.

Ad esempio?

Si prende del letame, lo si infila in un corno di vacca, possibilmente che abbia partorito già un vitello, lo si interra per circa sei mesi in un determinato periodo dell’anno in modo che possa riempirsi di forze astrali  Quindi si rilascia sui terreni o sulle colture…

Come mai l’agricoltura biodinamica sta prendendo piede quasi solo nella produzione del vino?

Ci sono anche aziende agricole che usano questa filosofia per coltivare ad esempio pomodori e insalata. Per rispondere comunque alla sua domanda dico che innanzitutto il vino è molto più costoso dell’ortofrutta e quindi i margini di guadagno sono migliori, sia per le aziende produttrici, sia per i rivenditori. E poi il vino è stato sempre un prodotto carico di simbologia, pensiamo ad esempio all’utilizzo nella liturgia.

Rimaniamo in cantina: il vino più costoso è sempre quello più buono?

No, non è così. Noi, purtroppo, ci facciamo influenzare tantissimo dal prezzo. Posso raccontare un esperimento?

Prego…

Un gruppo di ricercatori californiani ha osservato venti persone a cui era stato chiesto di valutare il vino che veniva loro somministrato. I partecipanti all’esperimento erano monitorati da una macchina per la risonanza magnetica funzionale del cervello che mostrava in tempo reale quali zone venivano attivate. L’unica informazione fornita era il prezzo del vino. I soggetti erano stati selezionati tra persone che apprezzavano il vino rosso e, almeno occasionalmente, lo bevevano, ed erano stati indotti a credere che avrebbero assaggiato cinque diversi cabernet sauvignon. In realtà erano soltanto tre, ma due di questi sono stati somministrati due volte, con indicazioni di prezzo diverse. Un vino venduto a 90 dollari la bottiglia è stato presentato la metà delle volte con il suo vero prezzo, l’altra metà come se costasse 10 dollari. Allo stesso modo, un vino da 5 dollari e stato anche presentato come se ne costasse 45. I partecipanti hanno mostrato di apprezzare di più il vino più caro, anche se era lo stesso. Otto settimane dopo, quando il test è stato ripetuto senza alcuna indicazione di prezzo, i soggetti non hanno riscontrato differenze tra i vini… Questo significa che noi siamo particolarmente influenzabili dalla pubblicità e anche dai costi. Spesso siamo tentati di comperare le cose più costose avendo l’idea di acquistare prodotti più buoni. A volte è così, ma non è una regola.

Passiamo alle uova. Quanti tipi ci sono in commercio?

In commercio ci sono quattro tipi di uova che hanno un codice sulla confezione, anche se quello più ricco di informazioni per il consumatore si trova stampato sul guscio. Ci sono le galline allevate in gabbia, a terra, all’aperto e all’aperto con mangime biologico. Poi ci sono diverse tipologie. Dal punto di vista nutrizionale non ci sono differenze, chiaramente le cose cambiano in merito al trattamento dell’animale. Ci sono consumatori che possono preferire uova da galline allevate all’aperto, però in questo caso c’è il rovescio della medaglia.

Cioè?

Le galline allevate all’aperto, infatti, hanno un’alimentazione che non è controllata come quelle allevate nelle gabbie. Di conseguenza se vivono in un ambiente più o meno inquinato, becchettando i sassolini o quello che trovano in giro possono ingerire inquinanti che poi ritroveremo nelle uova. Ad esempio in Belgio e in Olanda sono state trovate tracce di diossina nelle uova di galline allevate all’aperto. Io, quando posso, acquisto uova di galline allevate a terra, le più fresche possibili. A mio avviso la freschezza rappresenta il parametro più importante.

Ma l’alimentazione delle galline influisce sulla qualità delle uova?

No, in tanti studi sono state trovate pochissime differenze solo sulla fragilità del guscio. Ma questo ha importanza solo a livello industriale, per chi cerca uova che non si rompano facilmente nella fase di confezionamento.

Parlando in generale, il biologico è meglio?

I prodotti biologici costano di più ma non ci sono prove scientifiche che dimostrino una qualsiasi superiorità nutrizionale.

E per quanto riguarda l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi?

Questo aspetto è molto temuto dai consumatori e di conseguenza si rivolgono al biologico perché in qualche maniera hanno paura che la verdura e la frutta convenzionale siano in qualche modo inquinante da pesticidi. In realtà, però, se si vanno a osservare le statistiche e le analisi eseguite dalle istituzioni della sanità si può vedere che la stragrande maggioranza dei prodotti di frutta e verdura messa in vendita rispetta tutti i limiti di legge. In pratica è sicura. Il biologico, quindi, non è più sicuro anche se alcuni, però, hanno questa convinzione. E chi è ansioso verso certi tipi di prodotto si rivolge al biologico, spendendo ovviamente di più. Io personalmente mangio con l’intera buccia anche le mele convenzionali, non ho alcun problema…

Invece della mortadella 100 per cento naturale con zero chimica che ne pensa?

Da chimico ne penso male. Sarebbe ora di smetterla di usare il termine “chimica” in senso dispregiativo. Senza chimica non vuol dire niente, non è che la mortadella non abbia le molecole… E poi dire 100% naturale non significa mica che la troviamo sulle piante…, la mortadella non è una mela, bisogna produrla. Quindi quando ci troviamo dinanzi a questi “annunci” dobbiamo andare a leggere le etichette nel modo più giusto. E in questo caso vedremo che contiene conservanti di origine naturale.

Quindi?

Per me si tratta di un piccolo inganno nei confronti del consumatore in quanto l’origine di un conservante non influisce sulle sue proprietà. Questa mortadella, al pari delle altre, contiene dei nitriti che sono dei conservanti e che alcuni consumatori, per loro motivi, non vogliono ingerire. Quindi scrivere sul frontespizio dell’etichetta della mortadella zero chimica per me è un piccolo inganno perché i consumatori sono portati a credere che questa mortadella ne sia priva. Invece non è così.

È accertato che il consumo di nitrati o nitriti potrebbe causare l’insorgenza del cancro?

Non si può parlare di sostanze più o meno cattive tralasciando le dosi. I nitriti sono dei conservanti che vengono aggiunti ad alcuni salumi perché servono a proteggerci dal botulino. Ingeriti in grandi dosi, però, questi nitriti possono nel nostro corpo trasformarsi in sostanze cancerose.

Ma se queste sostanze possono causare problemi perché sono permesse?

Senza i nitriti nei salumi rischieremmo il botulino, è una questione di calcolo del rischio. Se poi uno vuole evitare il rischio di nitriti o nitrati e anche di botulino deve girare alla larga da determinati salumi scegliendo prodotti, come ad esempio il prosciutto crudo, dove come conservante troviamo solamente il sale. Tenga presente che ogni anno ci sono diverse persone che finiscono in ospedale a causa del botulino e qualcuno ci muore pure. Quindi non è da prenderlo sotto gamba.

Adesso, invece, ci dice quanto è difficile imbattersi, a casa o al ristorante, in una vera mozzarella di bufala…?

In effetti non è una cosa semplice… È ancora più difficile nei mesi estivi quando aumenta il consumo ma la produzione è sempre la stessa. Di conseguenza c’è la tentazione di alcuni produttori di allungare il latte di bufala con quello di vacca… Dalle analisi che riporto nel libro, infatti, è risultato che una buona percentuale delle mozzarelle, sia di quelle che si usano in pizzeria o che possiamo acquistare anche con marchi dop importanti, contiene una miscelazione con il latte vaccino. In questo caso aumenta il guadagno dei produttori e noi consumatori non possiamo assolutamente accorgercene. Dobbiamo solo fidarci.

Affrontiamo ora il tema dei coloranti. Fanno tutti male e sono tutti necessari?

Di per sé i coloranti non sono necessari, nel senso che non apportano alcun vantaggio di tipo sanitario a differenza del conservante, invece, che come dicevo serve a preservare il prodotto. I coloranti hanno solo una funzione estetica, vengono messi nel cibo e nelle bevande solamente per renderli più accattivanti agli occhi dei consumatori. Noi siamo abituati a vedere i coloranti nelle caramelle, nei ghiaccioli, negli aperitivi, eccetera. Io, però, sono più critico nei confronti di quei prodotti dove è lecito non aspettarseli.

Ad esempio?

Li ho trovati nelle mazzancolle, nei gamberi e addirittura negli yogurt. Vedi uno yogurt alla fragola bello colorato di rosa e subito pensi che dentro ci siano tante fragole… Sbagliato, di frutta ce n’è davvero poca, quell’invitante colore rosa deriva infatti dall’intervento umano… Magari mettendo dentro del succo di barbabietola, di carota nera oppure di sambuco. Per carità, sono tutti innocui, però se ne potrebbe fare a meno. Non bisogna ingannare l’occhio del consumatore.

Però non sembrano tutti innocui. Ad esempio su alcuni pacchetti di caramelle ci sono avvertenze non troppo rassicuranti tipo: “E102-E122-E124: possono influire negativamente sull’attività e l’attenzione dei bambini”…

In effetti su alcuni coloranti c’è ancora un po’ di discussione scientifica… Una fetta della popolazione, infatti, può avere una certa reazione negativa consumando grandi dosi di prodotto con determinati coloranti. La questione non è stata ancora risolta e quindi per utilizzare questi coloranti occorre mettere in etichetta questa avvertenza.

Ma non è giusto scaricare sul consumatore il peso di una decisione di acquisto consapevole, tenendo tra l’altro presente che sono poche le persone che leggono le etichette, scritte microscopicamente, e nello stesso tempo in grado di interpretarle correttamente…

Condivido pienamente.

A proposito di coloranti, è vero che il liquore alchermes da secoli viene colorato di rosso con un additivo che deriva da un insetto messo a seccare…?

Certamente, è un colorante antichissimo e tradizionale. La cocciniglia, che è un insetto, viene seccata e triturata, e successivamente viene estratto questo colorante di rosso intenso. Non so se questa procedura sia nota a tutti i vegetariani…

Latte sì o latte no? Bere il latte da adulti, dicono da più parti, è innaturale…

Nel libro non entro nella questione salutistica, se faccia bene oppure no, faccio semplicemente una riflessione sulla definizione di innaturale. Molti dicono che consumare il latte da adulti sia innaturale visto che in natura lo bevono solo i bambini. Questa a mio avviso non è una visione corretta. Le persone intolleranti al lattosio non possono proprio berlo perché il loro corpo, dopo l’età dello svezzamento, non riesce più a digerirlo. In quel caso potremmo dire il latte per loro è innaturale, tant’è che non lo bevono. C’è però una certa percentuale della popolazione mondiale, che non è piccola, che lo digerisce e trova piacere nel berlo. In tanti, infatti, posseggono dei geni che mantengono l’enzima che permette di digerire il lattosio. Per queste persone, quindi, bere il latte è assolutamente naturale.

Tra queste persone, però, non ci sono i cinesi…

Questo tipo di enzima si è sviluppato soprattutto in Europa e in alcune zone dell’Africa, in pratica in territori dediti all’allevamento e alla pastorizia. In Cina, invece, questo non si è sviluppato. Infatti se andiamo in un ristorante cinese non troviamo formaggi e utilizzo di latte. In Europa, invece, in particolare in Francia e in Italia, ne facciamo un grande utilizzo essendo famosi per il formaggio.

A proposito di latte, perché, come osserva lei nel libro, il burro italiano è spesso di qualità inferiore rispetto a quello prodotto nel nord Europa?

Il metodo generalmente utilizzato all’estero (in Francia e nei paesi del nord Europa) per separare la crema di latte, senza alterarne le proprietà organolettiche, è la centrifugazione. Poiché il burro viene spessissimo consumato crudo, i difetti organolettici dovuti alla scarsa qualità della crema di latte non sono accettabili. La sequenza logica di produzione è: latte-burro-formaggio. Il burro italiano, invece, è spesso “da affioramento” e, a parità di latte di partenza, è di qualità inferiore rispetto a quello di centrifuga.

Perché allora non ricorriamo anche noi alla centrifuga per separare la panna?

Direi che alla base c’è una motivazione economica. Noi abbiamo una grandissima produzione di formaggio e non abbiamo, invece, un grande consumo di burro crudo, dove appunto i sapori si avvertono maggiormente. Il burro italiano è per oltre due terzi un sottoprodotto della lavorazione del grana padano e del parmigiano reggiano, che utilizzano latte parzialmente scremato per affioramento della crema. E il parmigiano e il grana hanno un valore aggiunto ben superiore a quello del burro. In parole povere, se voglio produrre burro di qualità dovrò trasportare il latte e separare la crema alle temperature ottimali per ottenere il burro migliore, che non sono le stesse richieste per ottenere il formaggio migliore.

E del burro pubblicizzato come leggero e a basso contenuto di colesterolo c’è da fidarsi? Ha dei vantaggi salutistici?

Esiste il burro dove hanno tolto una parte di colesterolo e hanno aggiunto dell’acqua. Le etichette, dunque, sono veritiere ma il  consumatore deve chiedersi se veramente valga la pena.

Cioè?

Il prodotto a cui hanno ridotto i grassi aggiungendo dell’acqua non ha il vero sapore del burro. Se uno allora ha problemi nel mangiare il burro deve toglierlo dalla dieta oppure deve consumarlo in quantità minori. Non capisco perché, invece, dovrebbe utilizzare un burro annacquato che tra l’altro costa anche di più… Lo stesso vantaggio di grassi ridotti posso ottenerlo riducendo la quantità di burro.

Ci dice, brevemente, i tre motivi per cui lei sconsiglia di mangiare il tonno?

Il primo è un motivo di sostenibilità ambientale visto che ultimamente il tonno sta andando per la maggiore. È un pesce sovrasfruttato e lo stiamo catturando più velocemente di quanto riesca a riprodursi. Ci sono forti rischi, dunque, non dico di estinzione ma certamente di grande riduzione della specie.

E gli altri motivi?

Uno è di tipo salutistico. Il tonno è un pesce molto grande e vive a lungo, di conseguenza può accumulare nel suo corpo una serie di inquinanti ambientali, come ad esempio i metalli pesanti: cadmio, piombo e mercurio. Ci sono stati alcuni casi in cui le analisi hanno accertato nel tonno, sia fresco che in scatola, un contenuto di mercurio superiore ai limiti di legge. Se uno mangia il tonno una volta al mese non succede nulla, il problema invece potrebbe presentarsi a chi ne fa un uso quasi giornaliero. Penso ad esempio a quanti settimanalmente si nutrono con la classica insalatona con dentro il tonno. Non a caso, infatti, in alcuni paesi si sconsiglia alle donne incinte il consumo di tonno proprio per questi motivi.

Manca l’ultimo…

È di ordine sanitario. Se dopo la cattura il pesce non viene conservato in modo corretto, per esempio perché non viene rispettata la catena del freddo, alcuni batteri possono produrre un enzima che trasforma l’istidina in istamina, principale responsabile delle intossicazioni dovute al consumo di pesci: questa sostanza non viene distrutta dalla cottura e, se ingerita in quantità eccessive, causa reazioni di tipo allergico anche gravi.

E del tonno che si taglia con un grissino che ne pensa?

Il tonno migliore è quello del Mediterraneo, il cosiddetto tonno rosso però è quello più raro da trovare a causa del sovrasfruttamento. Tranne in rari casi, quindi, in Italia acquistiamo il tonno pinne gialle che arriva dall’oceano indiano. Tenga presente, però, che quello di qualità è sodo perché è un trancio. Se invece si taglia con un grissino, come dice la pubblicità, allora sono rimasugli di lavorazione.

Chiudiamo con un ultimo consiglio dello scienziato al consumatore…

Dobbiamo imparare a essere un po’ più critici nei confronti delle affermazioni pubblicitarie.

In che modo?

Soffermandoci a leggere attentamente le etichette di quello che acquistiamo e capire se conviene o meno spendere di più per un prodotto. Ad esempio a volte siamo tentati di comperare dei biscotti che recano la scritta “senza grassi idrogenati”. Ma se non controlliamo l’etichetta non sapremo mai quali altri grassi sostituiscono quelli idrogenati…

Non è semplice, però, essere informati sulle etichette e quindi valutare le possibili controindicazioni dei singoli ingredienti che troviamo stampati…

Giustissimo. Proprio per questo motivo ho deciso di dedicarmi alla scrittura di libri in grado di sensibilizzare i consumatori.

 

Comments are closed.