L’EDUCAZIONE NON è UN’ESCLUSIVA DELLE MAMME

intervista ad ALESSANDRO D’AVENIA
By Gino Consorti
Pubblicato il 4 Giugno 2015

“Dipendesse da me – osserva il CELEBRE professore amatissimo dai giovani e autore DI TRE LIBRI DI SUCCESSO, TRA I QUALI Bianca come il latte rossa come il sangue – obbligherei entrambi i genitori a essere presenti ai colloqui scolastici. Dobbiamo ridare dignità agli insegnanti e premiare quelli che lavorano con professionalità. No allo strapotere dei presidi. Le prove invalsi? Turiamoci il naso e facciamole…”

Dice di essersi fatto crescere la barba per sembrare più serio, ma i suoi riccioli dorati e lo sguardo sbarazzino gli trasmettono più che altro un’aria da cherubino. Anche perché i suoi occhi celesti luccicano di gioia e serenità. Sarà per questo, allora, che gli adolescenti, e non solo, impazziscono per lui? Ma no, certamente l’aspetto gradevole e rassicurante avrà il suo peso, ma ciò che fa innamorare ragazzi e ragazze è il suo cuore. Quell’organo cavo, così come lo definisce Alessandro D’Avenia, che rende indietro tutto ciò che riceve…

Dottore di ricerca in Lettere classiche, il prof dalla “penna fatata” e il viso pulito insegna al liceo cattolico San Carlo, uno dei più antichi e prestigiosi di Milano. Un biglietto da visita più che sufficiente a tratteggiare lo spessore del personaggio. Lui, però, non è quel genere di persona. Etichette e classificazioni le rispedisce al mittente. Zainetto in spalla, jeans, camicia e una vecchia bici per andare al lavoro e perdersi tra le vie della city antica e nello stesso tempo avveniristica. Il successo non ha per nulla rigato il suo animo nobile, i suoi principi, la sua etica, la sua fede. Si sa, le persone di cultura in una società dove impera il mercato e il profitto spesso sono considerate presenze solitarie. Nel suo caso, però, vale il contrario. Dove c’è il professore siciliano, infatti, c’è gente, aggregazione, contagio. In una parola, c’è la vita e la voglia di viverla con tutte le sue facce. Compresa quella dell’adolescenza, una fase affascinante quanto tormentata.

Oltre a essere un brillante professore e un acuto editorialista, il 38enne letterato palermitano ha anche pubblicato tre libri scintillanti che lo hanno fatto balzare alla notorietà. Il primo romanzo, Bianca come il latte rossa come il sangue, pubblicato nel 2010, ancora oggi in classifica ha venduto oltre un milione di copie ed è stato pubblicato in 23 paesi… Le cronache lo hanno dipinto come un vero e proprio caso letterario. Ma non è finita qui. Nell’aprile del 2013, ispirato al libro, è uscito nelle sale cinematografiche il film del quale D’Avenia ha scritto la sceneggiatura insieme a Fabio Bonifacci. Un grandissimo successo di pubblico e critica, tant’è che nel settembre dello stesso anno è stato messo in commercio in dvd. Il secondo romanzo mandato in libreria porta la data del primo novembre 2011, Cose che nessuno sa. Altro risultato lusinghiero e pubblicazione in 13 paesi. Infine, e arriviamo al 28 ottobre 2014, ecco Ciò che inferno non è, dove l’autore ridà vita a padre Pino Puglisi, un uomo straordinario il cui sorriso non si arrese nemmeno dinanzi al suo assassino… Il sacerdote palermitano, ucciso in un agguato mafioso mentre rientrava a casa nel giorno del suo 56esimo compleanno, era stato il professore di religione di due fratelli di Alessandro D’Avenia, e anche a lui aveva fatto lezione come supplente. Tra i banchi e i corridoi di quella scuola, dunque, aveva incrociato più d’una volta quel sorriso contagioso e colmo d’amore. Lo stesso che il sacerdote regalò al killer di Cosa nostra, Salvatore Grigoli, poco prima che gli sparasse in testa. Lo stesso sorriso il cui ricordo, quella notte, tormentò il cuore e la mente dell’omicida a tal punto da portarlo, successivamente, al pentimento e alla conversione. “Mi ricordo – sottolinea D’Avenia nel libro – ancora la prima lezione con lui. Si era presentato con una scatola di cartone. L’aveva messa al centro dell’aula e aveva chiesto cosa ci fosse dentro. Nessuno aveva azzeccato la risposta. Poi era saltato sulla scatola e l’aveva sfondata. Non c’è niente – disse – Ci sono io. Che sono un rompiscatole”.

Quell’incontro e un libro di poesie di Friedrich Hölderlin, donatogli dal prof d’Italiano, scrissero dunque il futuro del giovane studente palermitano. Maturò in quel momento, infatti, la scelta di diventare insegnante. Attenzione, però, non un maestro, bensì un testimone. Uno di quelli che attraverso il proprio lavoro aiuta a scoprire nell’altro la serenità e la gioia del credere e dell’amare. Un qualcosa che, una volta trovato, ti cambia totalmente la vita. Ed ecco, allora, che le sue lezioni, le sue conferenze, i suoi incontri, i suoi scritti, il suo web, i suoi twitter dispensano messaggi autentici spargendo nella società, e soprattutto tra i giovani, semi fecondi.

Dopo un lungo “inseguimento” riesco finalmente a incontrare il prof a Milano. L’occasione non posso farmela sfuggire, di conseguenza di buon mattino piantono l’ingresso del collegio San Carlo. Non si sa mai… Lui, puntuale al secondo, arriva con lo zaino in spalla e l’immancabile sorriso. Ora andiamo ad ascoltarlo…

Prof, tanto per rompere il ghiaccio…, chi è Alessandro D’Avenia?

Iniziamo già con una domanda impegnativa… È un uomo che ha avuto la fortuna, all’età di 16 anni, di incontrare sulla sua strada dei maestri che gli hanno fatto vedere in anticipo chi sarebbe stato. Di conseguenza la sua vita è stata un cercare di raggiungere quella profezia che in qualche maniera aveva intravisto negli occhi di quei maestri.

A chi ti riferisci in particolare?

Innanzitutto ai miei genitori, che quest’anno tra l’altro festeggiano cinquant’anni di matrimonio. Senza di loro tutto quello che sono e faccio non esisterebbe. Poi, però, viene un’età in cui i genitori li metti un po’ da parte ed ecco allora che negli occhi di un maestro che crede in te, per quanto mi riguarda il professore di lettere Mario Franchina e quello di religione del mio liceo, don Pino Puglisi, ho visto quello che sarei potuto diventare. Mi piace sintetizzarlo con alcuni versi di Emily Dickinson. Noi, dice la poetessa statunitense, non sappiamo la nostra altezza finché qualcuno non ci invita ad alzarci in piedi… Ecco, a 16 anni qualcuno mi ha detto: Pensa oltre il sabato sera… E lì, allora, ho intravisto cosa poteva essere la mia vita.

Nella scuola si ascoltano le persone, nella scrittura i personaggi: quale dei due ruoli è più complicato?

Nel mio caso sono due facce della stessa medaglia. Senz’altro ascoltare le persone richiede una pazienza che io chiamo delle stagioni, che è diversa da quella dei personaggi di un libro. I personaggi, infatti, puoi lasciarli lì e tutto sommato non si offendono troppo… Le persone, invece, richiedono un’attenzione costante perché l’amore è un’officina aperta 24 ore su 24 e quindi può essere più faticoso. Farsi infatti carico della vita degli altri è più impegnativo.

Istruire ed educare possono essere due cose disgiunte?

Questo è uno dei paradossi che ci portiamo dietro dai tempi dalla Rivoluzione francese, quando a un certo punto si è creduto che si potessero separare le due cose. Non siamo macchine e se ancora crediamo che le nostre lezioni debbano essere fatte in classe, e quindi in un ambiente a contatto vivo con i ragazzi, è perché siamo convinti del fatto che non possiamo metterle su YouTube e poi ciascuno se le guarda quando vuole…. Evidentemente sappiamo, anche se non lo ammettiamo, che istruire ed educare sono inscindibili. Nel momento in cui apro bocca, la mia gestualità, il modo in cui mi brillano gli occhi, il modo in cui atteggio il corpo nei confronti dei ragazzi, la maniera in cui faccio l’appello: io sto già educando. Non posso pensare, invece, che il tutto si limiti alla lezione. Già la scelta di istruire è una scelta educativa.

Qual è il segreto per testimoniare l’amore per la letteratura?

Come dico sempre l’eros deve avere tre dimensioni e tre direzioni, cioè tridimensionale e tridirezionale… Ci vuole eros per ciò che si insegna, quindi il che cosa; eros per la persona a cui lo si insegna, quindi il chi; eros per il come si insegna quel che cosa a quella persona. Se manca uno di questi tre elementi non c’è insegnamento. Inoltre sono convinto che nel caso delle materie umanistiche si tratta solo di mettersi al servizio della bellezza. Noi insegnanti siamo postini che portano le lettere belle di altri al tuo indirizzo. Però dobbiamo essere noi primi testimoni del fatto che quella bellezza ci ha cambiato la vita, l’educazione è sempre un desiderio di imitazione. Se vedo nell’insegnante qualcosa che ha reso la sua vita più piena e abitabile lo voglio anch’io. Se non parto da questo è impossibile.

Quali sono gli interrogativi più stringenti che intravedi nei tuoi alunni?

Ci vorrebbero ore per rispondere… Ricevo tantissime lettere e quindi ho la fortuna di essere in contatto profondo con il cuore di questi ragazzi. Le domande sono quelle di un adolescente che vuole capire per cosa veramente valga la pena giocarsi la vita. È un’età di crisi e la parola crisi, come ci hanno insegnato i greci, era quell’atto molto concreto dei contadini che giudicavano e separavano il grano buono dalla pula. Sono dunque nell’età di crisi perché è il tempo in cui devono valutare se quello che gli è stato insegnato fino a quel momento vale e ci si può costruire una vita. Loro, quindi, fanno domande su Dio, sul dolore, su come trovare i propri talenti, su come azzeccare la propria strada, su come affrontare situazioni di cui non hanno spiegazione, su come vincere la solitudine… Tutte quelle cose, che sono poi anche domande degli adulti, ma che noi dopo un po’ impacchettiamo. L’adolescente invece, nella sua timidezza, e quindi magari lo fa attraverso una lettera, ha il coraggio di tirare fuori questi quesiti.

In che modo un adolescente potrebbe donare la propria vita anziché consumarla?

I modi possono essere moltissimi, il punto è se noi diamo a questi ragazzi progetti e non oggetti. A mio avviso diamo loro troppi oggetti, pensiamo che per affrontare il mondo abbiano bisogno di uno zaino pieno di cose che al momento giusto serviranno a trovare la soluzione. Questa è un’idea tutta storta e consumistica della realtà.

Quindi?

Ritornerei a quello che diceva Enrico V in una delle opere di Shakespeare. Solo quando l’anima è pronta allora anche le cose sono pronte. Noi, invece, siamo in un’epoca dove vige l’esatto contrario… Se uno è capace di abitare la propria interiorità, di possedersi, allora sarà capace di donarsi. E a quel punto cercherà i modi, i luoghi e i tempi. Se prima non vi mettete con voi stessi, ripeto spesso ai miei ragazzi, non fidanzatevi in quanto userete l’altra persona per coprire quei buchi che non avete ancora affrontato…

A proposito di oggetti, oggi, quella degli adolescenti, è una visione immersa in una fitta rete di “relazioni mediali” che non sempre si trasformano in “relazioni interpersonali”. Essi, di fatto, ritengono abbastanza “lontani” i loro adulti di riferimento – genitori e insegnanti –  nei confronti di strumenti a loro più familiari della comunicazione, ad esempio internet, il lettore dvd, i videogiochi, cellulare eccetera… Come invertire questa sorta di circolo chiuso?

Ogni età, ogni epoca, ogni adolescenza ha avuto i suoi oggetti, le sue canzoni, le sue intemperanze. Si tratta solo di trasformare tutto ciò. Noi dobbiamo metterci dentro, abitare dentro questa realtà e indirizzarla. Un grande filosofo che si è occupato anche di pedagogia, a me molto caro, diceva che non si conquista la fiducia dei ragazzi cercando di conquistarla, perché si fanno quelle azioni un po’ da bambinoni o da adolescenti di ritorno. Si conquista, invece, partecipando alla loro vita. Ma dal proprio punto di vista. Per cui devo essere nella rete, devo essere su Facebook, su Twitter, devo essere su un blog ma mettendo i contenuti che dal mio punto di vista di insegnante trentottenne e scrittore posso dare. Certo, adeguandomi a un linguaggio che non deve banalizzarsi ma semplificarsi. Cioè devo dare gli stessi contenuti che darei in classe ma secondo le modalità di quel mezzo comunicativo. Allora a poco a poco li intercetti all’interno del flusso, li porti per un attimo fuori. E a loro guardare il flusso da fuori serve tantissimo, è una boccata d’aria, si rendono conto che possono dominarlo e non esserne dominati. Perché poi alla fine questo insieme di relazioni fatte solo di virtuale provoca noia, c’è poco da fare. Quando allora li tiri un attimo fuori dalla noia e gli dai la presa sulla realtà, gli dai la bistecca, loro si rendono conto che non possono più nutrirsi solo di un bicchiere di latte…

Nel tuo primo romanzo capolavoro Bianca come il latte rossa come il sangue l’amore e la morte sono i due temi dominanti. Come affrontarli per far sì che l’ultima parola sia del primo?

Questa è una cosa che in effetti sta al centro di tutti i miei tre romanzi. Mi sono reso conto, infatti, a posteriori, che non parlo d’altro, cioè di come affrontare la morte e sconfiggerla dall’interno.

Qual è il segreto?

La risurrezione di Cristo. L’unica prospettiva che ci è stata data nella storia. Le altre sono moralità che possono più o meno metterci una pezza colorata… Nella mia vita di modi di risorgere dal dolore, dalla fatica del quotidiano, di rinnovarlo dall’interno senza scappare ne ho provati tanti, ma solo questo funziona…

Tu perché credi?

Perché Dio è adrenalina e quindi anche di fronte alla sconfitta so che c’è un senso. Non una soluzione, perché Cristo non ci ha dato una soluzione, bensì un senso e una compagnia. E mi sono reso conto che nei libri alla fine questa è la parola che prevale, pur senza aver nascosto il deserto.

Qual è oggi la principale minaccia all’amore?

Credo sia una minaccia che permea tutta la cultura di questo tempo, cioè la separazione tra cuore e testa. Quindi in amore o si diventa tutti testa, cinici, cioè si pensa che sia un sentimento a scadenza come lo yogurt, e quindi una minaccia fortissima all’amore, oppure si diventa tutti cuore. Cioè un sentimentalismo che fa pensare che amore sia solo quando provo emozioni forti. Ma siccome poi l’amore è un’officina aperta 24 ore al giorno, a volte uno non ha voglia ed è proprio in quel momento che c’è la richiesta di un amore maturo e profondo.

Cosa fare, allora?

Dobbiamo riconciliare testa e cuore facendo capire che noi amiamo ciò che sappiamo amare e che è fonte poi di eros. È un continuo lavoro circolare fra eros e agàpe, cioè il fatto di sentire un trasporto verso l’altro e averne bisogno, ma allo stesso tempo donarsi all’altro perché l’altro ha bisogno di me. Questo, preso circolarmente, rimette in azione l’eros, riattiva l’agàpe e rende l’amore qualcosa di continuamente vivo. Nel momento in cui invece separiamo testa e cuore questo gioco, faticoso e divertente, si spezza.

Fin dai tempi degli scrittori pagani cultura e sapere si associavano a condotta morale esemplare e rettitudine. è ancora così oggi oppure il profitto e il mercato hanno cambiato usi e costumi…?

A me fa riflettere il fatto che tra le virtù cardinali che Platone e Aristotele avevano ravvisato perché l’uomo fosse veramente uomo, avevano messo la sophia, la sapienza, insieme a quelle altre che riconosciamo anche noi più facilmente come la fortezza, la giustizia, la temperanza e la prudenza. In effetti il fatto che noi non pensiamo più alla sapienza come la intendevano loro, che era una modalità del vivere riconoscendo ciò che ha valore, è uno dei punti zoppicanti del mondo di oggi. Siccome la saggezza è la ricerca della verità, nel momento in cui siamo immersi nel relativismo ciò non esiste più e quindi l’abbiamo sostituita. In pratica diventa vero chi oggi grida di più, chi è più forte. Quindi la massa o il mercato.

Come rimediare?

Sbattendoci la testa…

Cioè?

L’Occidente, che ha deciso di intraprendere alcune strade, arrivato al capolinea si renderà conto che bisogna tornare indietro…

A cosa ti riferisci?

Ad esempio a un mercato consumistico sfrenato che si dimentica degli altri. Pasolini, ad esempio, si diceva stufo di sentire parlare di fascismo e antifascismo, il vero fascismo di oggi, ripeteva, è il consumismo… Ecco, allora, che noi siamo succubi di un fascismo che oggi è di diverse proporzioni e che è cavalcato da un mercato che ha bisogno di acquirenti. Però, come dicevo in precedenza, solo quando l’anima è pronta le cose sono pronte, e non viceversa.

Basta l’amore oppure ci vuole un progetto di vita più grande per restituire un ruolo primario alla famiglia oggi purtroppo in frantumi?

Oggi i sociologi più avvertiti dicono che la famiglia si è privatizzata, si è individualizzata. Oggi i single sono le famiglie in quanto si è perso quel tessuto familiare e tra le famiglie che rendeva tutti più forti. Infatti si parla di famiglia affettiva, cioè di una famiglia pensata solo come luogo in cui essere protetti e dare affetto. Ma la famiglia deve essere anche luogo di cultura, cioè che ti spinge al mondo, ti aiuta a interpretarlo e ti fornisce il bagaglio interiore per affrontarlo. Quindi non basta la famiglia affettiva, ci vuole anche una famiglia sfidante, una famiglia in cui uno impara anche a capire quali sono i suoi talenti, i suoi punti deboli per puntare sui primi e puntellare i secondi. Un lavoro culturale di cui le famiglie devono rimpadronirsi trovando appunto quei luoghi in cui le relazioni tra famiglie si realizzano. E ancora, ridare dignità al ruolo delle famiglie nella scuola  altrimenti oggi muoiono di solitudine. Nel mio girare l’Italia amo visitare spesso la provincia e devo dire che lì questa situazione è meno grave. Esiste ancora un tessuto di comunità, quella che Leopardi chiamava una comunità ristretta, rispetto alla grande città in cui i ragazzi sono più soli proprio perché le famiglie sono più sfilacciate.

Noi, spesso, nascondiamo la sofferenza ai giovani. È sbagliato?

Questo è uno dei grandi inganni di oggi. Siccome non ci sono più narrazioni politiche, culturali, antropologiche, religiose che integrino il dolore noi lo omettiamo. Di fatto non sappiamo spiegarlo. E se io non ho niente da dire sul tema è chiaro che lo tralascio, senza sapere però che poi rientra dalla finestra spettacolarizzato…. I nostri telegiornali, infatti, sono una sorta di apoteosi del dolore e della morte… Ma diventa qualcosa che è sempre visto ma mai interiorizzato.

Cosa che invece non accade nei tuoi racconti…

In effetti credo che uno dei motivi di fortuna dei miei libri sia questo, cioè il fatto che abbia provato ad affrontare temi delicati che i ragazzi si trovano a vivere tutti i giorni e non sanno con chi parlarne. Ricevo confidenze da ragazzi che hanno letto solo un mio libro e mi raccontano le loro cose e quelle delle loro famiglie perché non hanno altri interlocutori… Questa solitudine la percepisco e la vedo tutti i giorni. Quindi dobbiamo rimetterci dentro questa sfida culturale di parlare del dolore della morte, però interpellando innanzitutto noi stessi. Noi cosa abbiamo da dire su questo? Se la nostra risposta è nulla, allora il nostro ruolo è squalificato in quanto c’è tanto da dire. Non fosse altro per affiancare in questo percorso soprattutto i ragazzi che si trovano in queste situazioni. Tempo fa ero in una città per un incontro e mentre facevo due passi una scolaresca di un’altra città mi ha riconosciuto. Una ragazza, allora, mi ha chiesto se quella storia che avevo raccontato in Bianca come il latte rossa come il sangue fosse vera. Perché mi fai questa domanda, le chiesi? E lei: perché noi a dicembre abbiamo perso una compagna di classe nello stesso modo e allora voglio sapere se quelle cose che ho letto mi possono servire, se è immaginazione o realtà…

A proposito di morte, nel tuo ultimo e bellissimo romanzo Ciò che inferno non è, ridai vita alla straordinaria figura di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia. Come si può sorridere a chi ti sta uccidendo…?

È il motivo per cui ho scritto quel libro. Capire quel sorriso o comunque entrarci dentro e in qualche maniera viverlo attraverso la finzione letteraria, anche perché quel sorriso in qualche maniera l’avevo già visto nei corridoi della mia scuola. Credo possa venire solo da una persona che abita dentro di sé una regione che è intoccabile dal dolore… Una regione che è intoccabile dalla morte, cioè uno che vive nella vita ed è già oltre la vita, ma non perché sia distaccato bensì perché c’è così pienamente dentro. Come se avesse i piedi per terra e la testa già in cielo e quindi vivere sulla terra in una maniera che è totalmente rinnovata. Io sono convinto del fatto che le persone che sanno morire sono quelle che hanno saputo vivere. Faccio sempre l’esempio del sorriso di padre Puglisi alla fine della sua vita o di quella ragazza, Etty Hillesum, che ha tenuto un diario nel campo di concentramento e che a un certo punto dice: “E se tu, Dio, non mi aiuterai più, allora sarò io ad aiutare te…”. È proprio il cambio di prospettiva, il riconoscere che non è Dio che ci abbandona ma che Dio in quel momento ci sta chiedendo di essere segno di lui nel contesto in cui siamo. E l’ultima frase che scrive prima di entrare nella camera a gas recita così: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Ecco con che libertà si può arrivare a morire…

Come mai padre Puglisi è più amato ora che quando era in vita? All’epoca era quasi uno sconosciuto…

L’essere quasi sconosciuti è una caratteristica degli uomini grandi, cioè di chi agisce e fa una rivoluzione silenziosa dal basso, poco a poco. Però nello stesso tempo padre Puglisi era conosciuto da chi lo doveva conoscere e questo irritava. Come succede sempre, la santità irrita perché mette in movimento chi sta nel suo quieto vivere da divano… I santi in qualche maniera ti fanno sentire fuori posto ma a posto… Ti chiedono a che punto sei con la tua esistenza ma allo stesso tempo ti fanno sentire amato e voluto bene perché puoi raggiungere quell’altezza. Non ti fanno sentire in colpa e questo irrita quelle persone che appunto non vogliono cambiare. Per questo motivo lo hanno ucciso. Quando è stato interrogato, il suo assassino, che ha cambiato vita dopo quel sorriso, ha confessato che il capo d’accusa della mafia era legato al fatto che don Pino “si portava i picciriddi cu iddu”. Evidentemente il riuscire a trasformare l’esistenza dei bambini e dei ragazzi di quel quartiere era una minaccia tanto quanto, ad esempio, l’azione di un Falcone o di un Borsellino… Vogliamo, allora, farci qualche domanda su questa figura di sacerdote, santo e martire? Che cosa faceva padre Puglisi? Forse la provvidenza ci ha voluto dare una segnaletica…

Ritieni che oggi la chiesa abiti pienamente quei territori formulando proposte, partecipando, denunciando, condividendo e ri-nunciando a compromessi?

Dico che ci sono singoli uomini che fanno bene ciò e altri che invece lo ignorano. Spesso si parla di eccesso di burocrazia nella chiesa, di un pensare troppo alle cose organizzative e poco alle persone. In padre Puglisi e in tanti altri religiosi vedo quel mettersi per le strade degli uomini come Cristo ha fatto sulla strada di Emmaus. Per me è l’icona di quello che dovrebbe essere la chiesa. Lui cammina insieme agli uomini e si fa riconoscere solamente nel momento in cui spezza il pane. Un percorso di affiancamento, di cammino, di spiegazione ma che deve portare poi al sacramento. Perché se non c’è Gesù… A volte vedo dei sacerdoti che danno se stessi, offrono le cose del mondo ma quello che hanno veramente da dare è Gesù. Altrimenti non sono sacerdoti…. In padre Pino Puglisi ho visto fare questo, l’uomo che sta nelle strade degli uomini ma poi porta Dio perché sa che a un certo punto lui deve farsi da parte. Infatti è il rapporto con Cristo che dà la forza all’uomo.

Dostoevskij ha scritto che il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per cosa si vive. Alessandro D’Avenia per cosa vive?

Bella domanda… Dice Ezra Pound, un poeta che mi piace molto: “Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio…”. Io ho imparato dai miei genitori che “per sempre” è uguale a ogni 24 ore, quindi la mia sfida è saper amare le persone e le cose che mi capitano in quelle 24 ore… Senza fare progetti di lungo periodo. Ogni 24 ore ho una pagina da scrivere bene, che sia di un articolo o di un romanzo, la correzione di un tema, un colloquio con una famiglia, un colloquio con un ragazzo, quella lezione preparata bene, quell’interrogazione, quello sguardo. Giorno per giorno chiedo al Signore di sapere amare questo. Anche perché non sono capace, l’amore infatti come dicevo è un’officina perennemente aperta e a volte si fa una gran fatica a causa del nostro egoismo, dell’accidia, della superbia… Ciò, però, mi tranquillizza in quanto non devo cambiare il mondo ma solo me stesso ogni 24 ore, lasciandomi abitare da quell’amore che è un dono. Dunque è un continuo ricevere e dare, non è un caso infatti che abbiamo scelto il cuore come grande metafora dell’amore e non il cervello. Quest’ultimo è un organo pieno mentre il cuore è cavo e deve dare tutto quello che riceve. Ci sarà un motivo perché noi diciamo ti amo con tutto il cuore e non, invece, con  tutto il cervello…

Ti aspettavi tutto questo successo?

No. Giorgio Caproni dice che il poeta è colui che scende nell’abisso del proprio cuore e deve affrontare la paura delle tenebre, delle difficoltà, ma nel momento in cui arriva al centro del cuore ci trova tutti gli altri. Ecco, quello che a me interessa è l’autenticità delle cose che cerco, le risposte e le verità che nel mio caso si realizzano attraverso la scrittura e l’insegnamento. Il fatto di trovarci tutti credo sia semplicemente una conseguenza, il successo viene quando non lo cerchi. Per me è stato così.

In che modo ti ha cambiato la vita?

Me l’ha incasinata parecchio, ma è un caos positivo proprio perché non me lo sono scelto.

Se fossi il ministro dell’Istruzione cosa cambieresti nel pianeta scuola?

Innanzitutto punterei sulla qualità. Noi dobbiamo ridare dignità agli insegnanti e premiare quelli che fanno questo mestiere alla grande, con professionalità. Che a volte vuol dire semplicemente sapere i nomi degli alunni durante un colloquio con i genitori, non parlare in dialetto quando insegni italiano, non fare sempre la solita spiegazione, preparare le lezioni. In  una parola qualità. Quindi proverei a inserire gradualmente il merito come criterio di avanzamento in carriera. Attualmente, invece, l’unico criterio di merito è l’anzianità… È chiaro, allora, che un sistema del genere oggi non può più andare. Tra l’altro a volte ha reso la scuola il rifugio per persone che insegnano non per scelta ma per necessità, perché non hanno trovato altro… Poi, più terra terra e a costo zero direi che sarebbe bello tenere aperte le porte delle aule, capire cosa succede dentro… Inoltre “obbligherei” entrambi i genitori a essere presenti ai colloqui visto che l’educazione non è un’esclusiva delle mamme… Se un figlio ha un incidente entrambi corrono in ospedale, ai colloqui scolastici, invece, ne vedi solo uno… Perché?

Probabilmente perché l’altro lavora…

Già…, così sembra che la cura dell’anima sia meno importante del corpo. Noi, invece, dobbiamo ridare dignità e grandezza all’anima e questo si fa in famiglia.

Piccoli gesti e suggerimenti alla portata di tutti. Ma alzando un po’ il tiro e quindi parlando di un livello più politico, quali indicazioni daresti?

Non mi sogno di entrarci dentro perché non è di mia di competenza… Ripeto, vedo necessario un cambiamento di rotta sulla professionalità. Come valutare la professionalità non solo su base dell’anzianità.

Entrando nello specifico della riforma del governo Renzi che tanto fa discutere, tu da che parte stai?

A mio avviso contiene cose positive e negative.

Partiamo dalle prime…

Mi piace il fatto che la si smetta con queste graduatorie ad esaurimento. Mai nome fu più ironicamente giusto, cioè esaurimento mentale degli insegnanti… E poi il fatto che ci saranno concorsi ogni anno in base al fabbisogno.

Cosa, invece, non ti convince?

In che maniera questi presidi, che potranno valutare il merito degli insegnanti, diventano capaci di farlo dall’oggi al domani? Allo stato attuale, infatti, ci sono dirigenti che sanno fare bene questo mestiere, e lo si vede perché la scuola è sempre a immagine loro, mentre tanti altri non sono all’altezza. Nelle mie frequenti visite mi rendo subito conto se quel dirigente sa creare famiglia tra gli insegnanti tirando fuori il meglio da ognuno, oppure se è solo un burocrate… Perché, allora, non inserire in questa valutazione un apporto maggiore delle famiglie, dei ragazzi, senza che gli insegnanti abbiano paura di essere giudicati? Una madre di famiglia sa benissimo quali sono i professori che in un consiglio di classe funzionano e quali no… Io se avessi dei figli e dovessi mandarli nella scuola in cui insegno senza dubbio saprei quali colleghi scegliere… Perché allora questo non può essere portato a sistema? Mi sembra una cosa molto normale in un impianto di qualità. Ovviamente per far questo non basta una figura singola come quella del preside a cui affidare un potere enorme, con tutti i rischi del caso… Raccomandazioni, simpatie, amicizie, antipatie, eccetera, eccetera. No, va assolutamente evitato. Si tratta, allora, di trovare i giusti correttivi evitando però pantani burocratici…

Che giudizio hai delle prove invalsi, un tema sempre attuale e al centro di accese polemiche?

È uno strumento necessario perché tutti i ragazzi delle scuole europee, molto prima di noi, sono abituati a questo tipo di rilevamento. La differenza è che in altri paesi la valutazione è fatta dagli addetti e non dai docenti stessi.

Dunque ci vorrebbe un “giudice terzo”…

Esattamente. Questo renderebbe sicuramente lo strumento più adatto. Inoltre ho trovato terribile il boicottare una prova del genere. Io entro in classe ogni giorno per educare al rispetto delle regole e delle persone e poi strumentalizzo i ragazzi dicendo loro di scrivere delle fesserie e quindi di boicottarle… In questo modo sto squalificando tutto. E se un giorno quegli stessi studenti dicono che la tua spiegazione fa schifo e ti mandano a quel paese? È proprio una contraddizione. Questo ovviamente non vuol dire essere supini a una prova che ha delle inadeguatezze chiarissime. Ma coloro che in questi anni le hanno boicottate quale alternativa hanno proposto alle prove invalsi? Il punto è sempre lo stesso: se io protesto e lascio il vuoto al ragazzo non sto insegnando niente. A loro dobbiamo dare sempre un pieno, altrimenti è pura comodità. È in altre sedi e con altri modi che noi dobbiamo protestare contro le inadeguatezze di ciò che il governo fa rispetto alla scuola. Mi è sembrato un autogol clamoroso usare i ragazzi. A loro posso dire che il test fa acqua da tutte le parti però bisogna farlo perché ce lo richiedono certi criteri. Ci turiamo il naso e buonanotte…

Guardandoti indietro hai qualche rimpianto?

No, rifarei tutto, anche gli errori. Come ho raccontato nel secondo libro Cose che nessuno sa, le perle vengono fuori da un attacco di un predatore che ha cercato di divorare il mollusco. E nel momento in cui il mollusco è riuscito a ripararsi poi dà il meglio di sé, costruisce attorno a quel pezzettino di chela del predatore quella madreperla. Un tesoro unico proprio perché c’è stato quell’attacco del dolore, della fatica e del fallimento che è parte della vita quotidiana. No, non ho rimpianti se non quello di non essere stato a volte capace di amare le persone che ho accanto. Vuoi per egoismo, accidia, incapacità.

Sogni per il futuro?

Le prossime 24 ore… Questo toglie qualsiasi ansia. Ho tante idee sui prossimi romanzi da scrivere però affronterò il tutto giorno dopo giorno. Fino a che dura mi dedicherò a quelle 24 ore…

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