LE SPERANZE CHE SI SONO SPENTE LE CRISI CHE AVANZANO

By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 30 Dicembre 2013

Il consuntivo è piuttosto deludente ma potrebbe essere corretto in senso positivo se si giungesse a un accordo per il controllo dell’atomo iraniano e se andassero avanti i negoziati israelo-palestinesi Il 2013 è da dimenticare? Non del tutto, ricordando l’elezione di papa Francesco alla cattedra di Pietro e un vento di novità che percorre il mondo cattolico. Numerosi non credenti si interrogano sui valori della fede, tornano molti – così documentano insospettabili inchieste laiche – che si erano allontanati. Per il resto, però, a livello planetario si tratta di un bilancio piuttosto deludente, che potrebbe essere corretto in senso positivo se si giungesse a un accordo per il controllo dell’atomo iraniano e se andassero avanti i negoziati israelo-palestinesi. Lo scorso anno si è spenta clamorosamente la speranza legata alla cosiddetta “primavera araba”, inizialmente una rivoluzione popolare che ha partorito invece conflitti, violenza e morte. Come dimostra la Siria istallatasi in una guerra civile di feroce normalità, nonostante – almeno questo – la distruzione e il non-uso delle armi chimiche: ma le vittime si contano a decine di migliaia, i profughi superano il milione, il paese è allo stremo. Non va meglio in Egitto, dove il fanatismo religioso ha compromesso una rivolta all’inizio generosa contro un regime tirannico, riportando al potere i militari e sbarrando la strada allo sviluppo di un sistema che favorisca libertà e giustizia. Allo stesso modo la Libia, sbarazzatasi di un tiranno, è caduta in un caos nel quale gli scontri per bande sono diventati la regola. E anche la Tunisia, da cui era partita la scintilla della “primavera”, è sull’orlo di un conflitto civile che soltanto un miracolo sembra possa evitare.

La costatazione più inquietante riguarda l’inasprirsi, all’interno al mondo musulmano, di uno scontro confessionale nel quale sono coinvolte, per interposti terrorismi, la maggioranza sunnita, con capofila l’Arabia Saudita, e la consistente minoranza sciita, di cui è leader l’Iran: in nome di Maometto ci si massacra a colpi di autobomba e di attentati (l’Irak ne è una tragica dimostrazione, mentre l’Afghanistan resta un problema non risolto), esportando la loro violenza anche all’esterno. Come provano le stragi che si sono moltiplicate e di cui sono vittime animisti e cristiani a opera di fondamentalisti islamici in Africa (ricordiamo gli eccidi in Nigeria, Kenia, Uganda, Somalia e Sudan) e in Asia, in particolare nelle Filippine.

Una parte di quelle crisi colpisce direttamente l’Europa, meta, dalle aree in difficoltà, di migrazioni di massa (con il Mediterraneo come cimitero di speranze per migliaia di sventurati) per affrontare le quali mancano soluzioni da parte di una Unione “indecisa a tutto” e che lascia l’Italia a sbrigarsela da sola. L’irrilevanza europea nella politica mondiale va messa nel conto delle delusioni: dopo aver subìto una crisi economico-finanziaria che da oltreoceano ha scaricato, in specie nel 2013, i costi principalmente sulla Ue, il grande disegno dell’unificazione europea sembra perdersi nella regolamentazione dei formaggi e negli egoismi nazionali. Con i paesi dell’area meridionale indicati quasi come parassiti, e quelli del virtuoso Nord come profittatori: in un  processo che, ad esempio, mette oggi sul banco degli imputati la Germania per eccesso di efficienza nelle esportazioni, a scapito di una mancata crescita comune. Il risultato è che i cosiddetti “euroscettici” si stanno trasformando in veri e propri “eurofobi” con una preoccupante crescita delle destre in molte nazioni e con non infondati timori di esplosioni xenofobe in vista delle elezioni del 2014 per il parlamento di Strasburgo.

Se l’Europa piange, l’America non ride. Nel 2013 si è fatta palese realtà la perdita di prestigio internazionale degli Stati Uniti. Con una opinione pubblica spaccata da beghe interne, con riforme sociali, come quella della sanità voluta da Barack Obama, che non funzionano, con una minaccia di fallimento finanziario (nello scorso ottobre lo si è temuto sul serio), Washington non sembra più in grado di esercitare la propria influenza su amici e avversari. Coinvolta in un sordido affare di spionaggio e intercettazioni politico-industriali (magari per carpire segreti economici agli stessi alleati), balbetta giustificazioni, come non era mai accaduto, quando è chiamata alla resa dei conti.

Nel frattempo, la grande rivale, la Cina, con strumenti non sempre limpidi conquista posizioni di controllo nelle economie di numerosi paesi d’Asia e d’Africa, ammonisce Washington sulla tenuta del dollaro (di cui possiede immense riserve), avanza pedine per rendere lo yuan la moneta di riferimento del futuro e procede all’occupazione di piazze finanziarie. Ma Pechino ha pure i suoi problemi: contestazioni anche violente degli uiguri (i musulmani del Sinkiang) e dei tibetani, inquinamento urbano, immigrazione interna e spopolamento delle campagne, una sempre più viva coscienza dei diritti che ha portato l’anno scorso a migliaia di rivolte locali, spesso affogate nel sangue, invecchiamento della popolazione che ha fatto abolire il principio del figlio unico. Con le riforme decise dai nuovi dirigenti Pechino si apre sempre più alla logica capitalistica e mercantilistica, ma continua a praticare una politica basata sulla repressione e sull’ostentazione della forza: non a caso è il paese in cui, lo scorso anno, è stato emesso il maggior numero di condanne a morte e che ha  dedicato alle spese militari la percentuale più alta del bilancio statale.

Vogliamo concludere con una nota positiva: nel 2013 è diminuito il numero degli affamati e dei decessi infantili; nel mondo sono visibilmente aumentati gli esempi di altruismo e di solidarietà. Molto di più, però, si può fare. Ce lo auguriamo per il 2014?

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