L’Aquila. Per non dimenticare.
Il santuario di San Gabriele, ha celebrato ieri una veglia per ricordare le vittime del terremoto che dieci anni fa, il 6 aprile 2009, ha devastato l’Aquila e provincia.
A guidare la preghiera è stato don Giovanni Mandozzi, a quel tempo parroco a Roio Piano (AQ) e oggi parroco di Isola del Gran Sasso.
Davanti all’altare alcuni segni: una strada circondata di sassi; un grande cuore fatto con piccoli lumi; una maglia con l’effige del capoluogo abruzzese sulle spalle e sul fronte la scritta “TerremoTosto” che, ha spiegato don Giovanni, richiama “sia la forza brutale del terremoto, sia la forza degli aquilani, gente di cuore che non si lascia abbattere dalla sventura e tiene duro per ripartire verso un futuro migliore”.
La liturgia è articolata in momenti di lettura e preghiera intervallati da alcuni video realizzati dal sacerdote usando le foto che lui stesso ha scattato nei giorni immediatamente successivi al sisma.
Verso la fine della veglia è stata letta la testimonianza di una ragazza che il celebrante ha definito “inconsapevole vittima miracolata del terremoto”.
Stefania era già a letto quando avverte una prima forte scossa “durante la quale tutto rimane al suo posto”. Lo spavento, però, è grande e così quella notte dorme poco.
Quando arriva la scossa delle 3.32, è già vestita. Cerca di fuggire ma le scale che dovevano condurla fuori non ci sono più. Chiama casa per dare l’ultimo saluto ai suoi cari perché – racconta – “più passava il tempo e più mi rendevo conto che quella sarebbe stata la mia ultima notte”. Alle 4.50 viene estratta dalle macerie. Si guarda intorno, cerca volti amici, ma ben presto realizza che molte delle persone a cui era affezionata erano ancora sepolte dalle macerie e che qualcuno non lo avrebbe visto mai più.
Poi è lo stesso don Giovanni a dare la sua testimonianza. Da uomo di fede, parla di come il terremoto ne abbia ritemprato la fibra e la disposizione alla condivisione. E aggiunge: “Quello che mi porterò sempre nel cuore è stato il 7 aprile, quando ho celebrato un battesimo usando una bacinella e un bicchiere di plastica. Anche questo – spiega – è un segno di rinascita”.
E la rinascita non solo degli edifici, ma anche della comunità civica, è l’augurio più bello che ci sentiamo di fare ad una città che vede risorgere i palazzi, ma che risulta ancora spopolata. Perché una casa inabitata è un guscio vuoto, e non esiste rinascita della città senza la rinascita della popolazione.