LADRI DI LAVORO?
Avere per colleghi dei robot in molte aziende è ormai una realtà: dai carrelli automatici che prelevano i prodotti all’interno dei magazzini Amazon alle SpeedFactory di Adidas, dove le scarpe vengono costruite quasi senza intervento umano
Chissà se il Genio lo aveva previsto. Forse sì, ma tra i suoi appunti conosciuti non vi è traccia di cosa avrebbe potuto causare quel suo studio. Così, 523 anni dopo, i normali cercano di capire le ripercussioni che avrà nei prossimi 15 anni il robot. Già, perché il primo progetto documentato di un robot umanoide venne fatto da Leonardo da Vinci attorno al 1495. Suoi disegni scoperti negli anni Cinquanta raffigurano in modo dettagliato un “cavaliere meccanico, che era apparentemente in grado di alzarsi in piedi, agitare le braccia e muovere testa e mascella. Non è dato sapere se Leonardo abbia o no tentato di costruire il robot, a questo ci pensò l’inventore francese Jacques de Vaucanson, il quale nel 1738 prima fabbricò un automa che suonava il flauto, e poi un’anatra meccanica che, secondo le testimonianze, mangiava e faceva anche i suoi bisognini.
Da qualche decennio questi “oggetti umanoidi” si chiamano robot, termine derivante dal ceco e che significa “lavoro pesante”. A ben pensarci, servono per darci una mano. Isaac Asimov ne ha fatto il perno della sua produzione letteraria, ma le cose stanno andando talmente veloci che il carattere naif del passato è sopraffatto dalle previsioni: i robot ci ruberanno il lavoro? Più di uno studio qualificato prevede che nei prossimi 15-20 anni vi sarà una perdita di almeno tre milioni di posti di lavoro. Il progresso tecnologico ha sempre creato ricchezza e nuova occupazione. Avere per colleghi dei robot in molte aziende è ormai una realtà: dai carrelli automatici che prelevano i prodotti all’interno dei magazzini Amazon alle SpeedFactory di Adidas, dove le scarpe vengono costruite quasi senza intervento umano. La tecnologia sta contribuendo a ridisegnare le attività produttive in ogni ambito e a tutti i livelli: i nuovi lavoratori elettronici infatti non si occupano solo dei lavori più ripetitivi e di basso profilo, ma sono sempre più spesso impiegati anche in quelle che vengono definite professioni della conoscenza. L’avanzata delle macchine sui luoghi di lavoro sembra ormai inarrestabile, tuttavia il loro avvento nella catena economica deve avvenire in maniera controllata e servono misure che tutelino le categorie più deboli. Comunque, non sono solo gli operai a doversi preparare a un cambio epocale: software sempre più evoluti e capaci di apprendere sono già entrati nelle professioni intellettuali, come il medico, l’avvocato, il manager, il consulente finanziario.
Gli stessi studi indicano, però, che si creeranno nuovi lavori e nuove figure professionali generati proprio da questo cambiamento epocale che ricorda gli albori della rivoluzione industriale di tre secoli fa. In pratica, le macchine non ci toglierebbero il lavoro, tutt’altro: i paesi più avanzati mostrano tassi di disoccupazione minore, a condizione che il processo sia governato dalla politica (quella buona, ovviamente…), in maniera che gli impieghi cancellati dall’avvento di macchine e software sofisticati possano essere rimpiazzati da mansioni più qualificate. In Germania, per esempio, il valore aggiunto generato dall’industria negli ultimi dieci anni è aumentato del 3,8 e la quota di Pil investita in ricerca e sviluppo è stata del 2,8% mentre in Italia quest’ultima è stata dell’1,3 per cento e il valore aggiunto è sceso del 2,1%. Maggiormente significativo è il confronto sulla qualità dei posti di lavoro creati negli ultimi cinque anni: nella fascia di retribuzione più bassa “vince” l’Italia con 470 mila impieghi contro i 200 mila della Germania; in quella più alta i tedeschi sono a 680 mila contro i nostri 100 mila. Complessivamente, in questo settore vi sono stati 570 mila nuovi posti da noi e 780 mila da loro (210 mila in più). Come si vede, tutto dipende da come si affronta il cambiamento.
Il Club Ambrosetti, strettamente riservato ai vertici di gruppi e imprese nazionali e multinazionali operanti in Italia, nel suo report sull’argomento sostiene che il mercato del lavoro italiano non sarà una passeggiata: manifattura e commercio perderanno rispettivamente 840 mila e 600 mila unità; in quindici anni le attività immobiliari perderanno trecentomila degli attuali 2,5 milioni di addetti; oltre 200 mila nei settori agricolo e ittico. La perdita dell’occupazione sarà rapida: 130 mila all’anno nei primi cinque, 290 mila negli ultimi cinque. I rischi maggiori saranno per le nuove generazioni: 20 per cento per i lavoratori fra i 20 e i 24 anni, 16 per cento fra i 25 e i 29, e 13 per cento fra i 60 e i 64 anni. Nella stessa ricerca si sostiene che sarebbe sufficiente elaborare iniziative capaci di creare 42 mila posti all’anno, puntando nei settori come l’alta tecnologia, le scienze della vita e la ricerca di base. Per ogni nuovo posto in un settore avanzato se ne creano altri 2,1 nell’indotto, il che significa – considerando solo questi tre esempi – che dai quarantamila posti l’anno in questi settori si sale a 124 mila (con gli 84 mila dell’indotto) e in quindici anni si creerebbero oltre 1,8 milioni di nuovi posti, colmando, quindi, il vuoto che verrebbe causato dai robot. Ma quali sono i lavori destinati a scomparire e quelli che dureranno per sempre? Secondo alcuni esperti, un futuro tetro è all’orizzonte di televenditori, cassieri, consulenti fiscali e bancari, e anche ferrovieri e autisti (quando le automobili faranno quasi tutto); invece, potranno dormire sonni tranquilli terapeuti, assistenti sociali, insegnanti, chirurghi avvocati e cantanti. Comunque, nessuna paura, perché uno dei maggiori sociologi del lavoro italiani, Domenico De Masi, ha trovato una formula che merita la massima attenzione, e l’ha esplicitata nel suo recente studio Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati (Rizzoli, Milano 2017) nel quale, parafrasando il celebre slogan del sessantotto “Lavorare meno, lavorare tutti”, sostiene, e dimostra, che per dare un lavoro ai disoccupati basterebbe ridurre di poco l’orario di lavoro degli occupati. Nel nostro paese lavoriamo 1.800 ore l’anno pro capite e abbiamo sei milioni di disoccupati – argomenta De Masi -. Se scendessimo alle 1.482 ore pro capite dei francesi, avremmo oltre quattro milioni di posti in più. E se toccassimo le 1.371 ore pro capite dei tedeschi (che, dunque, a dispetto dei luoghi comuni, lavorano meno di noi, ma in modo più efficiente) guadagneremmo 6,6 milioni di posti. Una tesi che andrebbe approfondita e coniugata con politiche del lavoro all’avanguardia, perché il problema è davvero serio.
Da servi (nell’antico slavo ecclesiastico “rabota” significa servitù), i robot rischiano di diventare padroni. Le previsioni dello studio Ambrosetti indicano che torneremo ai livelli occupazionali degli anni settanta, con costi sociali spaventosi: una contrazione dei consumi fino a 43 miliardi di euro e lo Stato dovrà rinunciare a 30,5 miliardi di gettito fiscale. Ma per quest’ultimo aspetto sembra che siano già pronte soluzioni: qualcuno ipotizza l’introduzione dell’Irped, un’imposta sul reddito prodotto dalle persone digitali, cioè i robot. Va a finire che se si dovesse rivelare più alta delle altre, qualcuno potrebbe reimpiegare gli umani al posto degli umanoidi. Quindi, se un robot ci dovesse togliere il lavoro, una tassa ce lo ridarà!