LA TERZA GUERRA MONDIALE “A PEZZETTI”
La guerra europea dei trent’anni – 1914-1945 – è stata l’ultima nella quale ha dato il peggio di sé una cultura occidentale intenta a scannarsi. L’attuale conflitto mondiale a macchia di leopardo fa emergere la tendenza (peraltro vecchia di oltre 1300 anni) del mondo islamico al carnaio reciproco, principalmente fra le due più importanti componenti, i sunniti e gli sciiti, sotto pretesto di princìpi religiosi, coinvolgendo naturalmente il resto dell’umanità, così come aveva fatto in passato l’Occidente. I focolai bellici fanno di uno stato uno scontro planetario “a pezzetti”, come ha costatato papa Francesco: un qualcosa che si avvia a essere più sanguinoso e negativo delle guerre precedenti – pur definite “catastrofi finali” – se non altro per progressiva estensione geografica.
Altro che “inutile strage”, secondo la ben nota definizione di Benedetto XV (del quale a settembre si è commemorato il centenario della elezione, appena dopo lo scoppio del primo conflitto); come ha detto papa Francesco a Redipuglia, “guerra è follia, figlia di Caino…”. E ciò risulta dal doloroso bilancio che si è costretti a redigere quando si parla della realtà in atto del “terzo conflitto mondiale” di cui paghiamo già le conseguenze con oltre 51 milioni di sfollati (dato 2013) all’interno degli stati coinvolti, con una cifra in modo approssimativo uguale in milioni di morti dall’inizio del secolo, e con circa dodici milioni di rifugiati all’estero. Dei quali fa parte lo stillicidio quotidiano che si riversa sulle sponde europee da quelle africane.
L’Europa sembrava risparmiata dallo scontro diretto, con l’eccezione della contesa greco-turca e delle successive guerre balcaniche nella seconda metà del novecento. Oggi però si scopre che ai confini orientali la crisi ukraino-russa fa temere qualcosa di più che tensioni politiche e diplomatiche con Mosca. In un intreccio internazionale nel quale spesso non si riescono a distinguere amici e nemici, interessi e prospettive a breve o lungo termine. Lo dimostra la complessità della vicenda mediterraneo-mediorientale che, al momento, coinvolge una dozzina di stati e un paio di pseudo-stati (il califfato e i curdi). Nel passarli in rassegna, troviamo in primo luogo il caso della Libia, dove in una feroce guerra civile almeno tre fazioni si contendono il potere sul territorio e in cui è difficile discernere quale sia quella che abbia un minimo di legalità istituzionale. Uno scontro di tutti contro tutti: è legittimo il sospetto che l’obiettivo sia il controllo dell’estrazione del petrolio, con i proventi che può assicurare. Ai suoi confini l’Egitto sembra aver superato, con l’avvento di una dittatura militare sancita da un dubbio referendum popolare, un periodo di incertezza causato da un precedente regime ispirato al fondamentalismo islamista.
A est è sempre effervescente il contrasto israelo-palestinese, come ha dimostrato la breve, sanguinosa e distruttrice guerra estiva di Gaza. Non ha risolto alcuno dei problemi che da oltre 65 anni affliggono la Terrasanta, con le sue cicliche ricadute belliche, mentre si approfondisce sempre di più, per responsabilità reciproca, il solco di odio fra due popoli che dalla geografia sono condannati a convivere. Le vittime conteggiate a conclusione dei due mesi di conflitto attorno alla striscia sono, purtroppo, un ulteriore ostacolo alla pacificazione invocata da papa Francesco nell’incontro in Vaticano fra i leader israeliano Simon Peres e palestinese Abu Mazen.
E c’è poi il capitolo Siria-Iraq, ormai unificato in una stessa storia dall’intrusione violenta di quello che si è autodefinito il califfato islamico: una singolare accozzaglia di terroristi, tagliagole e fondamentalisti alla conquista di uno spazio politico e religioso che viene loro contestato dalla maggioranza del mondo musulmano, anche da quello che (parliamo dei regni ed emirati arabi) per vari motivi lo aveva finanziato sino a ieri e che si sta accorgendo di aver cavalcato la tigre, al punto di ritrovarsi nella coalizione attorno agli Usa, destinata a spazzarlo via.
Resta comunque il dato di fatto delle milizie dell’IS, impadronitesi quasi a sorpresa di una porzione dell’Iraq, con la conquista di città importanti, e di alcune zone della Siria. Nei territori occupati si sta esercitando il massimo della violenza, come documentano le cronache quotidiane: esecuzioni sommarie (particolarmente sanguinarie quelle di due giornalisti americani) e assassini di gruppo, stupri, esazioni nei confronti delle minoranze religiose, cristiani, yazidi, turcomanni, sottoposti a veri e propri genocidi. Dopo iniziali vittorie, le forze del califfato stanno assaggiando insuccessi sul terreno per la reazione di curdi, sciiti, esercito irakeno, sostenuti dagli interventi aerei americani. Gli Stati Uniti, per bocca del presidente Barack Obama, si sono impegnati a “distruggere” l’IS.
Non sarà un’impresa facile. Specialmente perché l’idea dell’imposizione della sharia, la legge coranica, al posto di ogni altro strumento giuridico o costituzionale, si sta facendo strada non soltanto in Medioriente ma anche in alcune zone dell’Africa, dove i fondamentalisti islamici conducono la loro offensiva: in Nigeria, Mali, Somalia, Centrafrica, con puntate in Kenya e in Uganda. La bandiera nera del califfato è stata infatti issata in Libia e in Nigeria, e potrebbe esserlo anche in alcune parti delle Filippine, dove una minoranza radicale non accetta l’accordo di pacificazione raggiunto dopo quarant’anni di lotta e 120mila morti.
La “guerra a pezzetti” commemora, a modo suo, i cento anni dall’inizio della “inutile strage”. La pace, purtroppo, non è per domani.