In Egitto si è consumato l’avvenimento, sul piano internazionale, più drammatico della trascorsa estate. In Turchia, invece, il fuoco cova sotto la cenere
All’ordine del giorno le due piazze del Medioriente: piazza Taksim a Istanbul, piazza Tahrir al Cairo. Gli avvenimenti di questi ultimi mesi chiudono il cerchio della crisi nella parte orientale del Mediterraneo, quasi non bastassero la guerra civile in Siria, la conflittualità permanente in Terrasanta e la continua tensione che scuote il Libano.
In Egitto, il paese più popoloso dell’area, dalle grandi potenzialità economiche (dal turismo al traffico navale nel Mar Rosso, alla non irrilevante produzione petrolifera), si è consumato l’avvenimento, sul piano internazionale, più drammatico della trascorsa estate.
Dopo giorni, in giugno, di sommosse popolari, in decine di città (e scontri con morti), con folle sterminate che chiedevano le dimissioni del presidente Mohamed Morsi, e di fronte al rischio di una sanguinosa guerra civile, l’esercito ha rimosso il capo dello stato, abolito la costituzione da lui voluta in modo frettoloso, sciolto il parlamento, nominato un governo provvisorio. Passata l’emergenza, si tornerà al voto. Un golpe militare, si è detto: in effetti Morsi era stato eletto appena un anno fa, sia pure e con una maggioranza in parlamento assicuratagli dall’appoggio dei fratelli musulmani.
Il sostegno della potente confraternita lo ha indotto ad alcune mosse, sbagliate per gran parte dell’opinione pubblica, che hanno messo in crisi il sistema. I fratelli musulmani erano reduci da cinquant’anni di persecuzioni dal momento della proclamazione della repubblica da parte di un gruppo di militari: i tre presidenti – nell’ordine Gamal Nasser, Anwar al-Sadat, Hosni Mubarak – hanno contrastato in tutti i modi, sino alla prigionia, alla tortura e alla morte, l’influenza dell’associazione che avrebbe voluto imporre la legge coranica, la sua presa sul popolo (in particolare su quello delle periferie, abbandonate dal potere) era però andata aumentando, anche per merito di una rete di solidarietà – dagli aiuti economici alle cure sanitarie – sempre basata su motivazioni religiose.
Così i fratelli (responsabili, peraltro, dell’assassinio del presidente Sadat) avevano sposato, nel 2011, la rivolta contro Mubarak e ben presto, proprio per la reticolare organizzazione che già esisteva, sono riusciti a controllare una parte dell’elettorato. Facendo vincere la partita a Morsi, primo presidente laico designato democraticamente, e impadronendosi del parlamento.
Ma in appena un anno l’azione del governo si è rivelata fallimentare: la pressione per sottoporre il paese alla “Sharia” ha condotto da una parte alla netta spaccatura della società, dall’altra a crescenti difficoltà economiche, con la caduta verticale dei proventi del turismo, il crollo della produzione, l’aumento dell’inflazione e della disoccupazione.
L’intervento dei militari è sembrato inevitabile, anche se nella comunità internazionale ha suscitato perplessità la deposizione di un presidente legalmente eletto. Ma l’avvenimento è stato compensato dal consenso popolare, dall’unità dei partiti di opposizione, dall’impegno di un rapido ritorno alle urne, dalla benedizione (è il caso di dirlo) di un’autorità islamica, Ahmed al Tayeb, rettore dell’università al-Azhar, e di un esponente religioso, Tawadros, il “papa” dei cristiani copti (il 10 per cento della popolazione). Per il momento la guerra civile sembra scongiurata. Si spera che l’estate abbia portato consiglio.
Diversa la situazione in Turchia, dove ha dato fuoco alle polveri un fatto all’apparenza secondario: la decisione del governo di sacrificare l’ultimo polmone arboreo di Istanbul – il parco di Gezi, del quale abbiamo un ricordo personale di suggestiva bellezza – per costruire su quell’area una moschea, una caserma, un centro commerciale.
Così ai primi di giugno piazza Taksim è stata occupata da decine di migliaia di dimostranti in protesta pacifica per i ventilati provvedimenti; la polizia è intervenuta con durezza, sgomberando più volte la piazza, mentre in numerose città, compresa la capitale Ankara, si svolgevano manifestazioni represse con violenza dagli agenti.
Anche in Turchia il fuoco cova sotto la cenere, al di là dai risultati economici del paese, che peraltro in pochi anni sono passati da una crescita di 8 a un più modesto 2,5 per cento. Il premier Recep Tayyip Erdogan – per due volte ha vinto le elezioni con il suo partito Giustizia e sviluppo – ha preso provvedimenti di stampo integralista che hanno preoccupato e irritato la parte laica del paese (da quasi un secolo sottratto all’influenza dei religiosi islamici). Lo provano le critiche, anche aspre, provenienti da una importante comunità turca, ottocentomila persone, come quella che si trova in Germania e alla quale, in una recente visita, Erdogan aveva lanciato, inascoltato, la parola d’ordine: islamizzatevi.
Sta di fatto che, dopo minacce, repressioni, appelli ai seguaci del suo partito, misure lesive della libertà di stampa, il premier turco si trova oggi di fronte a una sentenza della suprema corte che dichiara illegittimi i provvedimenti per trasformare in area edificabile il parco di Gezi. E – non meno importante esito politico – il dossier di Ankara per l’ingresso nell’Unione Europea è stato rimandato ancora una volta a ottobre, cioè dopo le elezioni tedesche. Né si sa come andrà a finire.
L’anno prossimo ci sono le elezioni presidenziali ed Erdogan mira a quella poltrona. Contro di lui l’attuale presidente Abdullah Gul, che durante la crisi ha assunto posizioni molto più moderate, aprendosi alle esigenze dei manifestanti. In una Turchia spaccata in due, è arduo anticipare come si concluderà la lotta per quella carica. Ma il premier non sembra più partire in vantaggio, per colpa di un progetto sbagliato.