LA PRIVACY È MORTA IN TENERA ETÀ…

By Stefano Pallotta
Pubblicato il 7 Febbraio 2016

Privacy, riservatezza, gelosa custodia dei propri dati sensibili: per anni abbiamo gridato alla violazione del nostro privato quando qualcuno ha solo tentato di sfiorare i rigidi confini che delimitavano i nostri dati personali e sensibili. Per anni ci siamo battuti per avere, anche in Italia, una legge che ci garantisse dalle violazioni della nostra sfera privata. Abbiano promosso azioni giudiziarie; abbiamo chiesto ai giornali di cancellare i nostri dati personali; e nel nome di un malinteso diritto all’oblio (anch’esso direttamente collegato alla tutela della propria riservatezza) abbiamo preteso nelle aule di giustizia che gli organi di informazione rimuovessero dai loro archivi notizie e dati che ci riguardassero. Tutto sacrosanto, ovviamente in nome della tutela della nostra privacy. Però poi vai a vedere e cosa scopri? Scopri che le città abruzzesi, una dietro l’altra, si stanno dotando di megastrutture di sorveglianza, con telecamere piazzate in ogni angolo della città, dei quartieri centrali e periferici. Inaugurazioni in pompa magna delle centrali di sorveglianza dove decine di monitor raccontano la vita nelle strade. Tutto registrato, tutto catalogato minuto per minuto: persone, auto e animali.

Il “Grande Fratello”, insomma, ha piazzato un altro importante tassello per il controllo della vita “pubblica” delle persone, in nome questa volta, di una falsata percezione della criminalità. Sì, perché, secondo i dati pubblicati di recente dal ministero degli Interni, la criminalità in Italia è diminuita. E allora perché i cittadini continuano a rinunciare, più o meno consapevolmente, al diritto di circolare per le strade senza essere registrati da occhi indiscreti? Purtroppo accade che la rappresentazione mediatica (quella offerta soprattutto da un certo tipo di comunicazione televisiva che confonde i diversi piani dell’informazione e dello spettacolo) della criminalità viene piegata alle logiche della televisione, con una sovrarappresentazione della dimensione criminale, peraltro distorsiva rispetto alla percezione dei cittadini molto più preoccupati dalla criminalità organizzata. Un caso tutto italiano: il divario tra rappresentazione mediatica e condizione sociale. Infatti, basta chiedere a un cittadino qualunque una graduatoria sull’insicurezza e sulle preoccupazioni sapete benissimo cosa pone ai primi posti: la disoccupazione, la paura di perdere la pensione, la preoccupazione di non arrivare a fine mese; di essere licenziato e poi, ma molto poi, arrivano i furti, gli scippi e tutti i fenomeni legati alla microcriminalità.

Questo è un primo punto. Poi arriva la rinuncia che noi stessi facciamo della nostra riservatezza pubblicando sui social media tutto quello che diversamente avrebbe fatto scattare la tutela della nostra vita privata: foto di minori, dei nostri figli, le nostre passioni, i nostri interessi commerciali, culturali, sportivi. Finanche i nostri interessi filosofici, politici, religiosi. Regaliamo il nostro profilo nel nome di una falsa gratuità per l’uso dei social. Questa enorme mole d’ informazioni personali come viene utilizzata da Google, Facebook, Apple e altri due o tre big data che detengono il mercato globale della rete? La nostra “profilazione” viene venduta alle imprese commerciali che di noi finiscono per conoscere ogni preferenza, ma anche ogni desiderio. Povera privacy: è morta in tenera età. Riposa in pace.

 

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