LA PIù SANGUINOSA BATTAGLIA DEL SECOLO VENTESIMO

CENTO ANNI FA, VERDUN
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 1 Febbraio 2016

Settecentomila, forse un milione, di morti e dispersi, centinaia di migliaia di feriti, mutilati, gassati tra francesi, tedeschi, inglesi, truppe coloniali lungo una linea del fronte di poco più di quattordici chilometri attorno alla piazzaforte perno del sistema difensivo francese elaborato dopo la sconfitta del 1870 da parte della Germania

Sono soltanto nomi sui cartelli segnaletici, seguiti dalla dicitura “Comune di Francia. Abitanti 0”, ma con un sindaco regolarmente nominato a ogni scadenza dal prefetto. A uno di quei nove villaggi, Fleury, è stato conferito un titolo: “Morto per la Francia”. Dei piccoli comuni rurali, allora con poche centinaia di abitanti, restano la memoria e in qualche caso le macerie, attorno al luogo  più conosciuto della prima guerra mondiale: Verdun, esattamente cento anni fa. Settecentomila, forse un milione, di morti e dispersi, centinaia di migliaia di feriti, mutilati, gassati tra francesi, tedeschi, inglesi, truppe coloniali lungo una linea del fronte di poco più di quattordici  chilometri attorno alla piazzaforte, Verdun appunto,  perno del sistema difensivo francese elaborato dopo la sconfitta del 1870 da parte della  Germania.

La battaglia che ne prende il nome ebbe inizio con un colpo di obus che danneggiò, alle 8 del mattino del 21 febbraio 2016, l’episcopio di Verdun, primo dei tiri di cannone che furono scambiati nei trecento giorni dell’offensiva tedesca e della controffensiva francese (si parla, secondo calcoli approssimativi, di quindici milioni di proiettili fra una parte e l’altra). Per perdere o conquistare un’altura, pochi metri di terreno, qualche trincea nemica, in assalti alla baionetta e feroci corpo a corpo, nonché l’uso, da parte delle truppe imperiali, dei gas asfissianti e dei lanciafiamme. In sostanza i tedeschi persero la scommessa di avanzare verso Parigi, non lontana dal punto dell’attacco, e i francesi hanno sempre celebrato Verdun come un loro successo. Un soldato scriverà però: “Credo che l’inferno non potrà essere peggiore. Urla, il tuono spaventoso della mitraglia, cavalli fuggenti al galoppo. No, mi domando come non si possa diventare pazzi”.

Il prezzo pagato fu altissimo, prima di tutto in vite umane, poi in uno sconvolgimento ambientale che ridisegnò la geografia dei luoghi e addirittura cambiò la flora e la fauna, infine in una sorta di rancorosa memoria  sino alla seconda guerra mondiale. Dopo la quale capirono, però, che era pura follia continuare: tre guerre, 18970, 1914-18, 1939-45, avevano insegnato che non era possibile sopportare quei ritmi. È stato anche compilato un elenco di almeno settecento intellettuali francesi falciati dal conflitto; toccò la stessa sorte a  un numero quasi uguale di tedeschi. Erano scrittori, saggisti, docenti universitari, giornalisti, pittori e scultori la cui creatività fu sottratta al loro paese e all’umanità: di essi, circa la metà venne  sacrificata a Verdun, all’interno di una guerra in cui morirono esponenti della cultura cristiana come Charles Péguy, Ernest Psichari, Alain Fournier, Jean de Beaucorps. Furono i trecento giorni, sino al 19 dicembre del 1916, più sanguinosi della storia bellica del Novecento, come tali ricordati in opere e memorie che parlano di inferno, tragedia, fornace, odissea, ben differenti dalla retorica guerriera che aveva preceduto e accompagnato le operazioni sul campo. Lasciò, ripetiamo, una eredità di acredine che alimenterà il rapporto conflittuale fra i due paesi divisi dal Reno; ai tedeschi la lezione servì, nel 1939, per cambiare strategia e lanciare l’offensiva con una serie di azioni a tenaglia; non fu utile, invece, ai francesi che si illusero di ripetere il gioco di Verdun nel contenimento diretto attraverso le fortificazioni della linea Maginot, che il nemico scavalcò. La carneficina non poté non ispirare la lettera di papa Benedetto XV ai governanti delle nazioni in conflitto. Nel messaggio del 1° agosto 1917 utilizzò la famosa espressione “questa lotta tremenda la quale, ogni giorno più apparisce inutile strage”, ma nessuno seguì la saggezza dei consigli per una pace giusta, anzi ognuna delle parti in causa (con una malafede che gli storici, in seguito, sottolineeranno) lo accusò di fare il gioco del nemico. C’è di più: il 28 agosto l’Italia, impegnata contro l’Austria, dichiarerà guerra anche alla Germania.

Oltre la storiografia, Verdun ha alimentato romanzi, diari, saggistica, memorie letterarie, film, testimonianze. Dallo scrittore tedesco Arnold Zweig che scriverà in esilio nel 1935 “Educazione dinanzi a Verdun”, proibito in patria,  al pacifista francese Jules Romains, senza dimenticare “All’Ovest nulla di nuovo” di Erich  Marie Remarque, ambientato nel clima della guerra e anch’esso proibito nella Germania nazista. Pierre Teilhard de Chardin, un gesuita che diventerà poi uno fra gli antropologhi più noti al mondo, e che a Verdun sarà impegnato come barelliere, scriverà nel suo diario di guerra: “Non so quale specie di monumento il paese eleverà più tardi sulla quota Froid-terre, a ricordo della grande lotta. Uno solo sarebbe giusto: un grande Cristo. Soltanto la figura del Crocifisso può raccogliere, esprimere e consolare quanto di orrore, di bellezza, di speranza e di profondo mistero c’è in un simile scatenamento di lotta e di dolore”.

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