LA NUOVA CLASSE DIRIGENTE…
Ai sette del comitato centrale del Pcc , nel quale si accentra tutto il potere dello stato e che rappresenta 82 milioni di iscritti, è affidato il compito di gestire diversi problemi tra i quali spicca la piaga della corruzione. Si parla di 18mila funzionari fuggiti all’estero con la cassa, per un totale di cento miliardi di dollari…
Se l’Occidente guardava alle elezioni presidenziali americane, l’Asia era più interessata al 18° congresso del Partito comunista cinese, nei due avvenimenti di uguale importanza sul piano mondiale che si verificavano a poca distanza, le prime il 6, il secondo dall’8 al 14 novembre 2012. Confermato Barack Obama per il secondo quadriennio a Washington, a Pechino sono stati incoronati i “principi rossi” (la quinta generazione dall’arrivo al potere del Pcc di Mao Tse-tung nel 1948), conservatori come tutti i principi. E così è illusorio sperare che “i magnifici sette” del comitato centrale siano capaci di profonde e pur necessarie riforme popolari, sotto la guida del loro presidente Xi Jinpiang, 59 anni, e del capo del governo Li Keqiang, 59 anni. Alla testa del paese, i primi due, per il prossimo decennio, mentre gli altri dureranno soltanto un lustro, perché nel 2017 avranno superato i settanta anni.
L’evento, di interesse planetario (ma anche nostro, perché 45mila europei dipendono da aziende controllate dai cinesi e l’interscambio con l’Italia è piuttosto sostenuto), riguarda il paese più esteso e più popolato del mondo: un miliardo e trecento milioni di individui, tre volte e mezzo l’Europa unita. E che, seconda economia del mondo, potrebbe diventare la prima, superando nel giro di alcuni anni anche gli Stati Uniti. Ma bisogna usare il condizionale perché lo sviluppo della Repubblica popolare cinese, che è stato straordinario nell’ ultimo ventennio, comincia a incontrare alcuni ostacoli.
In primis la crisi economica mondiale, poi la dilagante corruzione, le rivolte e il malcontento popolari, l’insofferenza nelle forze armate, la discriminazione nell’istruzione, la repressione della libertà di stampa, la persecuzione religiosa. E non ultimo l’insieme della politica estera. Ai sette del comitato centrale del Pcc (nel quale si accentra tutto il potere dello stato e che rappresenta 82 milioni di iscritti), è affidato il compito di gestire quei problemi.
La crisi finanziaria, per Pechino, è stata limitata nel breve periodo, ma comporta inevitabili conseguenze in quello più lungo (il pil è intanto caduto del 3% in due anni, del 12% dal 1996). L’aumento dei salari e il calo delle esportazioni rallentano la crescita, e se questa crolla è compromessa la pace sociale (già a qualche rischio). Un terzo delle industrie straniere (Sony, Samsung, Exon, Nintendo) che avevano dislocato in Cina si è trasferito in altri paesi del sud-est asiatico. Migliaia di aziende sono state chiuse, 30 o forse 50 milioni di persone sono in cerca di lavoro e nello stesso tempo mancano operai specializzati, anche per la dissennata politica del “figlio unico”, che – è stato detto – potrebbe “far diventare vecchia la Cina, prima di diventare ricca”.
La vera piaga del paese è comunque la corruzione. Si parla di 18mila funzionari fuggiti all’estero con la cassa, per un totale di cento miliardi di dollari; sono stati celebrati 990mila processi, con 660mila condanne (molte delle quali alla pena capitale); né è un mistero l’arricchimento di molti alti esponenti del partito e del governo. Si parla di 770 fra deputati, dirigenti del Pcc e manager la cui ricchezza ammonta a 90 miliardi di dollari: il cosiddetto “partito business”.
E si scatenano, specialmente in periferia, le rivolte popolari. Almeno 180mila nel 2011; nel 2007 erano state “soltanto” 87mila. Le cause sono molteplici. Vanno dalle condizioni di lavoro nelle fabbriche, oltretutto senza tutela sindacale (in Cina è assolutamente improprio parlare di diritti umani), al degrado del sistema assistenziale, all’espulsione dei contadini dalle loro terre per opere pubbliche faraoniche, fonte di ulteriore corruzione e di violenze nei confronti degli abitanti dei villaggi, e che compromettono, oltre al resto, l’ambiente. La polluzione di alcune zone industriali è fra le più micidiali del pianeta.
Alla base del malcontento ci sono anche altre ragioni. Una delle quali è la difficoltà per le classi più povere di far studiare i loro figli, mentre quelli della “nomenklatura” (si cerca di tener nascosto che spesso vanno a studiare nelle università occidentali) sono abbondantemente favoriti. Un’altra è la mancanza di libertà di espressione in un tempo in cui le tecnologie permettono la diffusione delle notizie in tempo reale. Una parte del bilancio per la sicurezza interna, 110miliardi di dollari, è devoluta alla censura dei media e al controllo dei siti web. Non ultima la repressione religiosa. Il problema tibetano è lungi dall’essere risolto, nonostante il pugno di ferro del regime: dal 2009 si sono immolati al fuoco in 68 fra monaci e laici e l’opposizione resiste. All’ovest del paese, la minoranza islamica degli uiguri nel Xinijang procura al potere altrettante preoccupazioni. Mentre vengono perseguitati i più miti cristiani, che peraltro sono arrivati a far stampare cento milioni di copie della bibbia.
La politica estera di Pechino non nasconde la volontà di controllare l’intera area del Pacifico, per arrivare sino all’Australia, anche perché in quell’area passano i due terzi dei traffici del mondo. Non sarà facile, con gli Stati Uniti che (nel secondo mandato di Obama) si preoccupano di erigere una cintura di sicurezza coinvolgendo nell’Asian Summit Power (un patto di mutua assistenza) le altre nazioni, da Giappone e Corea, già occupate a contestare alla Cina la sovranità di isole e arcipelaghi costieri, agli altri paesi minori che non gradiscono il fiato sul collo di Pechino. Al punto che uno dei grandi ex-nemici, il Vietnam, è giunto a offrire agli Usa alcune basi navali. È certamente il capitolo ancora meno decifrabile della politica di Pechino. Ma – in mancanza di una nuova politica interna di riforme – potrà essere quello, nel